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C'è Mirabello nel destino di Fini

Giorgio Almirante e Gianfranco Fini

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Da Mirabello a Mirabello. La cittadina del Ferrarese è nel destino di Gianfranco Fini. Lì, nel corso di una Festa Tricolore, piuttosto ruspante come usava a quei tempi, Giorgio Almirante, ormai stanco e ammalato, lo investì quale suo successore pur senza farne il nome, ma soltanto tracciandone il profilo che tutti riconobbero. Era il 1987 e sulle spalle di quel giovanotto di trentacinque anni cadde l'eredità di un movimento che da neofascista era diventato di Destra, sia pure tra mille contraddizioni e tanti problemi identitari irrisolti. Il vecchio leader era certo di mettere in mani sicure il partito che insieme con Michelini, De Marsanich e Romualdi, non sempre in sintonia tra di loro, aveva contribuito a fondare e che per circa un ventennio si era riconosciuto in lui. Scegliendo Fini, Almirante saltava due generazioni di dirigenti, consapevole che il Msi necessitava di sangue nuovo da far scorrere nelle antiche vene. Insomma la continuità attraverso la modernità. Fu questo il suo lascito ed in quell'affollato spiazzo di Mirabello dove avveniva, non senza emozione, il passaggio del testimone da uno degli ultimi "repubblichini" - che aveva resistito all'assalto dell'antifascismo militante per oltre mezzo secolo, onorando la democrazia ed il Parlamento (come da tutti riconosciuto), ma tenendosi stretto alla consegna di "non rinnegare, non restaurare" - all'ambizioso segretario del Fronte della gioventù, chi era presente ricorda che fu come se nell'aria si fosse all'improvviso materializzato l'antico sogno almirantiano che a tanti sembrava un ossimoro: la "nostalgia dell'avvenire". Fini era l'avvenire. Dopo ventitré anni quel ragazzo invecchiato, come tutti noi che abbiamo memoria dei fatti di allora, ritorna a Mirabello, non più incredulo e un po' spaventato (come lui stesso ammise) avendo consapevolezza del compito che lo attendeva, ma da presidente della Camera dei deputati, all'apice quindi di una carriera politica indubbiamente sfolgorante, dove sulla piazza testimone di tanti comizi non batterà, come ci si poteva attendere, il sole di Austerlitz. Fini, fanno sapere dal suo entourage, tuttavia pronuncerà nientedimeno che un "discorso alla nazione", presumibilmente non alla maniera di Fichte, né di De Gaulle (sembra siano altri i suoi riferimenti attuali), ma non sappiamo che cosa dirà. Certo, parlerà di "futuro". Del resto come potrebbe evitarlo avendo intitolato ad esso tutta l'ultima parte della sua azione politica? Ma anche l'anno dopo l'ascesa alla segreteria del Msi-Dn a Mirabello parlò di futuro: niente di nuovo allora? Lo vorremmo tanto. Perché all'epoca, e negli anni successivi, sempre a Mirabello, il futuro di Fini erano i valori che si sposavano con la prassi possibile di un movimento che cercava di andare verso la gente senza abdicare, ma rivendicando orgogliosamente le sue origini; erano gli ideali senza reducismo che sapesse di muffa; erano l'onore, la fedeltà, la lealtà, il sacrificio sposati con la tradizione storica nella quale i militanti e gli elettori si riconoscevano. La fine degli anni Ottanta annunciavano smottamenti politici che pochi riuscivano a vedere o soltanto ad immaginare. Pinuccio Tatarella fu tra questi e con lui una manciata di giovani che, più o meno eretici, più o meno litigiosi, sentivano che gli anni Novanta sarebbero stati diversi dai decenni che si erano consumati e, dunque, il Msi, quel loro partito percepito come pulito, ma "inutile" dalla maggioranza degli italiani, avrebbe avuto un ruolo. Sappiamo come è andata e ci piacerebbe, nel nome di una storia non disprezzabile, che Fini il 5 settembre lo riconoscesse a Mirabello. E rassicurasse anche sul non trascurabile particolare che la "destra nuova", della quale poco si sa, non sarà mai una "non destra" o qualcosa di camuffato tanto per occupare uno spazio.   Ci dispiace mettere le mani avanti, sperando che nessuno si offenda, ma le incursioni recenti di Fini e dei finiani in campi incogniti (dalla biotetica alle unioni omosessuali, dal giustizialismo a certo relativismo etico e culturale, per non dire di dimenticanze istituzionali in ossequio ad un "patriottismo costituzionale" che non appartiene alla storia né al lessico della destra) ci lasciano piuttosto perplessi. Colpa nostra, naturalmente, che non siamo stati capaci di staccarci da certi stereotipi che ancora ci rimandano a cosucce come la patria, la nazione, lo Stato, la persona, la visione spirituale del mondo e della vita, la tradizione che si rinnova. E ci ostiniamo a ritenere che il solo orizzonte di una destra possibile oggi è quello di una "rivoluzione conservatrice" che altrove - vedi Cameron - in salsa post-moderna stanno riconoscendo. A Mirabello per quasi trent'anni abbiamo sentito parlare di queste cose, insieme a tante altre. E non dispiaceva per niente agli ascoltatori, anche quando dissentivano. Sapevano comunque che lì c'era un futuro che non avevano bisogno di cercare altrove. E ora?  

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