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Il pastore triste che credeva in Dio, Sardegna e Dc

Francesco Cossiga

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Bastian contrario fino all'ultimo. Ha deciso lui quando partire. Biglietto di sola andata. Aveva già preparato tutto, quattro lettere scritte il 18 settembre 2007 alle cariche istituzionali (e non alle persone che le ricoprivano), il testamento e l'ultima picconata: niente funerale di Stato. Ultima tappa, a casa, nell'Isola. Ogni dettaglio al suo posto. Poi ha fissato l'ora, azionato il conto alla rovescia e ci ha lasciati qui, smarriti. E ammirati. Francesco Cossiga è stato una presenza costante nella vita degli italiani. Quando ero bambino era il mito inavvicinabile del grande politico sardo che aveva conquistato Roma. Quando lasciò la presidenza della Repubblica mi ritrovai in mezzo alla folla a salutare la sua uscita dal Quirinale. «Nelle case di Sassari le famiglie mangiano minestra e politica», diceva per spiegare il demone che fin da ragazzo l'aveva rapito dall'università e catapultato ai vertici della Dc. Passione indomabile. La Sardegna fu il baricentro della sua vita, la Balena Bianca fu l'amante, lo Stato fu il padre e Nostro Signore il compagno di viaggio a cui raccontare gioie e dolori, vittorie e sconfitte, passioni e delusioni. Cossiga era un uomo dal cuore infranto e non per una donna: la tragica uscita di scena dalla nostra storia di Aldo Moro fu il suo grande dolore, il terribile sacrificio di una guerra torbida e inumana. Cossiga ne portò il segno nell'anima e nella pelle fino all'ultimo giorno.   La sua lucida allegria era contrappuntata dalla solitaria tristezza dell'uomo che cercava una risposta nel silenzio. La sua verità esplodeva in un eloquio pungente, nel sarcasmo e talvolta in una cattiveria biblica che affondava le sue radici nella società agropastorale della Sardegna. «Io sono pronipote di un pastore». Lo diceva come un innocuo intercalare e lo «straniero», il non sardo, ci rideva sopra. Ma ogni volta che leggevo o sentivo quella frase, capivo che sotto c'era ben altro: la cultura della terra, il timore degli elementi, la difesa del pascolo, un fucile accanto al camino nelle notti d'inverno, un coltello, sa leppa, sempre in tasca, buono per sbucciare le mele e levare il respiro a una minaccia. Così, improvviso si manifestava il pessimismo cosmico di un uomo che sembrava uscire dai romanzi di Grazia Deledda e Sebastiano Satta. Immerso in una natura immodificabile, sovrana e sovrumana, quella che ai vecchi faceva dire «chie no este ruttu, podet rughere», chi non è caduto può cadere. Cossiga è caduto e si è rialzato. E l'ha fatto per gli italiani, non per se stesso. È stato un grande Presidente della Repubblica, con buona pace di chi ieri ne voleva l'impeachment e oggi piange lacrime di coccodrillo. Aveva capito prima di tutti cosa stava accadendo alle istituzioni repubblicane, aveva interpretato il suo ruolo al Quirinale con toni spengleriani da tramonto di tutto. Il suo istrionico modo di esporre i problemi politici faceva accigliare i parrucconi, ma in realtà era l'urlo strozzato in gola di chi vedeva crollare i pilastri della Repubblica italiana, i partiti. I gendarmi della memoria (rubo un titolo a uno splendido libro di Giampaolo Pansa) politicamente corretta e della storia a senso unico lo attaccarono su tutti i fronti. A Cossiga nulla fu risparmiato. Poveracci, non arrivavano a capire che il Presidente stava ammonendo tutti, aveva visto in anticipo l'epilogo della nostra storia: lo sfascio di un sistema che - bene o male - aveva tenuto in piedi il Belpaese e impedito che lo Stivale fosse peggio di quel che era diventato. Lui, anticomunista a 24 carati, amerikano e custode del Patto Atlantico, fu il primo a capire che per sbloccare il sistema occorreva un atto di forza, una rottura. Con questa pazza idea in testa portò Massimo D'Alema, un postcomunista vero e non posticcio, alla guida di Palazzo Chigi. Flashback. Cagliari, dolce città bianca sul mare. Direzione dell'Unione Sarda. Squilla il telefono: «Sono Cossiga, Mario vieni qui. Sono all'Hotel Mediterraneo, ti aspetto». Lo trovo con la compagnia di giro di sempre. Allegro. Felice. Un gatto che ha appena mangiato il topo. Si ridacchia, fa battute sulla superiorità dei sassaresi rispetto a quelli come me, cresciuti nel Campidano oristanese. Buttiamo giù un'intervista sull'attualità politica: «Fondo il movimento dei quattro gatti». Vuol giocare, mi sento dentro una commedia sarda di Antonio Garau: «Presidente, ci vuole un simbolo». «Hai ragione. Farò un cartiglio...lo slogan sarà "miao" e ho già pensato anche allo stemma: quattro gatti d'oro in campo verde. Io, naturalmente, sarò il gatto mammone. Ma teniamo presente una cosa: i gatti graffiano». L'enciclopedia animale di Cossiga poteva competere con il Manuale di zoologia fantastica di Jorge Luis Borges. Il periodo finale della sua presidenza fu una saga di fantasmi, di non-morti: «zombie con i baffi» (Occhetto) e «accozzaglia di zombie e superzombie» (il Parlamento). L'Economist non capendo niente di lui - come di gran parte delle cose italiche - lo prese per matto e gli diede della «lepre marzolina». La caccia alla selvaggina si svolse nel gran frastuono e un nulla di fatto perché gli avversari di Cossiga avevano le polveri bagnate e lui più che una lepre era un volpone. Avevi voglia tu di cercare d'interpretarlo, decifrarlo, decodificarlo. Neanche un cremlinologo avrebbe potuto leggere i suoi arabeschi politici. Ed ora, martedì 17 agosto 2010, giorno di Santa Chiara da Montefalco, siamo qui a scrivere del suo ultimo viaggio, nel bel mezzo di una bufera politica dalla quale lui s'erge, ancora una volta, con un sorriso beffardo. Ho come l'impressione che ci stia osservando. Il pastore Cossiga sa di averci fregato tutti anche stavolta. La terra di Cheremule gli sarà lieve, terra di babbo e mamma, buona terra di Sardegna. Adiosu Franziscu.  

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