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Dal Quirinale picconò la Dc e il sistema

Francesco Cossiga

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Una cosa ha insegnato Cossiga a chi si occupa di politica: impossibile prevedere le sue mosse. Silenzioso quando tutti si aspettano che parli, ma pronto alle sciabolate improvvise. Dirette, senza diplomazia. Senza tener conto di schieramenti o alleanze. Lo ricordano bene i suoi ex amici della Dc. In particolare uomini come De Mita e Andreotti, amici e nello stesso tempo bersagli nei momenti alti della carriera di Cossiga. Un uomo di Stato, un militante della Dc fin dall'età di 17 anni, che a un certo punto ha deciso che fosse arrivato il momento di togliersi un po' di sassolini nella scarpa e per tutti le sue esternazioni furono dolori. Una franchezza che allora sconvolse i partiti, tanto che gli eredi del vecchio Pci tentarono perfino di porlo in stato d'accusa. Ma che aveva come bersagli preferiti proprio il suo vecchio partito e la magistratura. Il «picconatore» menava i suoi fendenti dal Quirinale seminando sconcerto, richieste di dimissioni, polemiche.  Al Quirinale c'era arrivato come mai nessuno in precedenza. Il grande regista era stato De Mita che pazientemente aveva tessuto la tela per settimane. Il compito era arduo: bisognava scegliere il successore di Sandro Pertini. Un uomo che a differenza di chi lo aveva preceduto cercò il contatto diretto con gli italiani. Infastidiva i politici, ma la sua popolarità era alta come non mai. Tanto che il vecchio capo partigiano un pensierino alla rielezione, nonostante l'età avanzata, l'aveva fatto. Ma serviva riportare il Quirinale sui binari del protocollo, del silenzio. A quel ruolo notarile di garante che i leader dei partiti auspicavano. E Cossiga sembrava l'uomo giusto. Ministro dell'Interno durante il caso Moro si era dimesso, dopo l'uccisione del presidente Dc. Poi aveva guidato il governo in un anno terribile come il 1980. Alla presidenza del Senato era apprezzato da tutti per il ruolo di garante. Così il 24 giugno del 1985, Cossiga venne eletto presidente alla prima votazione. Non era mai successo. A soli 57 anni, il più giovane presidente della Repubblica. Ricordo il sincero applauso di tutta l'aula, seduto nei banchi della stampa al fianco dell'allora direttore de Il Tempo, Gianni Letta. La sera volle invitare Pertini sulla terrazza dell'Hotel Excelsior a Roma per un informale passaggio di consegne. Dai primi gesti dopo l'insediamento tutti giurarono che il Quirinale avrebbe riconquistato l'austerità di un tempo. Più che l'erede di Pertini, il modello sembrava quello di Einaudi. Un uomo che parlava solo con atti ufficiali. Arriva però il 1989. Cade il muro di Berlino, va in pezzi il mondo comunista. Occhetto, allora leader del Pci avverte che il tonfo travolgerà anche i comunisti italiani, e alla Bolognina annuncia la nascita di un nuovo schieramento. Gongola la Dc che assapora la vittoria finale. Ma dal Quirinale è Cossiga che gela tutti. Il muro travolge il comunismo, ma anche chi ha fatto dell'anticomunismo la propria forza. Avverte che è arrivato il momento di mettere tutto sul tappeto, di cambiare la Costituzione. Annuncia la morte della prima Repubblica. «Il picconatore» vuole distruggere un mondo al capolinea. È scontro duro con i suoi ex amici. De Mita e anche Andreotti. Cossiga esaltò Gladio, ne sostenne la legittimità, l'organizzazione avrebbe dovuto contrastare una eventuale offensiva comunista. Gli eredi del Pci passarono all'attacco. La Dc non lo difese. Entrò in conflitto con il Csm. La sua prima esternazione fu la richiesta di non vietare ai magistrati l'iscrizione alla massoneria. Facilmente intuibili le reazioni. Mise a nudo il ruolo degli Usa. Picconava tutti quei segreti che per ragion di Stato erano stati tenuti gelosamente nei cassetti, ma che ora non era più necessario nascondere. Contestava la miopia dei politici del suo tempo. Ciò che accadde pochi mesi le sue dimissioni, 25 aprile 1992, gli hanno dato ragione. Così tornano le sue parole, la risposta a chi, ormai persa la speranza di placarlo, preferiva denigrarlo. «Io non sono matto. Io faccio il matto. È diverso. Sono il finto matto che dice le cose come stanno».

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