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Metamorfosi di Gianfranco e Francesco

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A vederli e, soprattutto, ad ascoltarli ora, a distanza di quasi 17 anni, si stenta a riconoscerli. Bisogna scorgerne i tratti somatici, invecchiati tra gli scranni del governo e di Montecitorio, per identificare Francesco Rutelli e Gianfranco Fini, i due sfidanti dell'autunno 1993 nella corsa al Campidoglio. Rutelli vinse al ballottaggio e fu il primo sindaco di Roma eletto direttamente dal popolo. Ma oggi questo conta poco. Perché di quei due esponenti politici, leader allora rispettivamente del Partito radicale e del Movimento sociale italiano, resta ben poco. Una metamorfosi kafkiana che li accomuna nella loro catarsi politica e che li rende, agli occhi degli ex alleati, personaggi scomodi e incomprensibili. Entrambi hanno abiurato il loro passato con la celata pretesa di essere i padri fondatori della Terza Repubblica ma con la conseguenza d'esser tacciati di trasformismo di convenienza. Oggi sono leader di un popolo che non è più il loro e senza più quei partiti, Pd e Pdl, che hanno contribuito direttamente a fondare. Prendiamo Francesco Rutelli. Ex radicale rampante e convinto, ex fondatore dei Verdi, forse condizionato dai lavori per il Giubileo del 2000, come Saulo è stato folgorato sulla via di Damasco. Edificando la Margherita ha spinto sé stesso e i suoi verso un centrosinistra moderato capace di coniugare laici e popolari, per poi divenire fervido sostenitore delle tesi cattoliche. Candidato dall'Ulivo senza successo a premier nel 2001 ha vissuto da protagonista nel 2007 la fusione di Ds e Margherita nel Partito democratico, prima di uscirne - è storia recente - dopo la sconfitta alle Comunali capitoline nel 2008, tradito dal fuoco amico contro Alemanno. «Fuori dal Pd? È una strada segnata. Non può essere un partito di sinistra, sarebbe un tradimento», disse a fine settembre del 2009 al termine d'un lungo stillicidio con l'anima ex Ds del partito. Ricevendo il benservito dall'attuale segretario Bersani: «Liberiamoci delle caricature». Uscì tra i fischi per fondare l'Alleanza per l'Italia e mettendo nero su bianco le sue linee programmatiche nel libro «La svolta». Il leader Udc Pierferdinando Casini l'ha subito adottato: «Insieme possiamo lavorare per superare il bipolarismo», lanciando l'idea di un nuovo Partito della nazione. La destra lo ha senz'altro rivalutato. Storia parallela quella di Gianfranco Fini, oggi presidente della Camera. Una vita nel Fronte della Gioventù, segretario del Msi, protagonista della svolta di Fiuggi del gennaio '95. Poi per 13 anni segretario di An, fusa con Forza Italia nel Pdl dopo il Predellino tra i mugugni di quei colonnelli che non l'hanno mai amato fino in fondo. Oggi è la nemesi di Berlusconi. Eppure il Cavaliere, all'alba della discesa in campo, di lui disse: «Se votassi a Roma la mia preferenza andrebbe a Fini». Oggi i due si detestano quando non si ignorano. «Problemi di democrazia interna», dicono i suoi. «No, vuole scalzare il premier ed è un ingrato», risponde la maggioranza del partito. Di fatto su giustizia, intercettazioni, immigrazione, economia e riforme Fini, dallo scranno più alto di Montecitorio, propone sempre una voce alternativa a quella del leader strizzando l'occhiolino al Quirinale.   Proprio come Rutelli, Fini ha affidato a un libro «Il futuro della libertà» - e alla Fondazione Fare Futuro che a lui fa riferimento - il compito di tracciare la strada futura. Il Pd senza leader ha fatto di Fini un'icona e promette di votarne gli emendamenti sulle intercettazioni. Inciucio? Larghe intese? Di sicuro oggi Rutelli e Fini non hanno più un partito e il popolo che li segue è cambiato. Chissà se i due ex rivali del '93 partendo da estremi opposti davvero non s'incontrino al centro.  

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