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Fini s'accontenta del minimo

Il presidente della Camera Gianfranco Fini risponde al premier che lo invita a dimettersi da presidente della Camera

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L'immagine del giorno è subito dopo le botte. Verbali, si intende. Silvio Berlusconi si alza, scende pochi gradini che dal palco lo portano in platea sul lato sinistro della sala, saluta Gasparri che lo aspetta lì sotto, un po' di deputati e si infila dietro un tendone rosso. Gianfranco Fini sceglie il lato opposto sotto al palco, sale invece i gradini che lo portano verso l'uscita dall'Auditorium Conciliazione. Nel corridoio si ferma con pochi fedelissimi. Arriva subito Pasquale Viespoli, poi Andrea Ronchi. C'è la segretaria personale Rita Marino e il portavoce Fabrizio Alfano. Arriva Adolfo Urso. Il capannello cammina così, conquista una stanzetta attigua al ristorante, le scorte selezionano gli ingressi anche se passa qualche infiltrato. Sopraggiungono di corsa anche Roberto Menia e Amedeo Laboccetta. Fini si siede e scatta un bell'applauso. «Bravo Gianfrancoooo!», dicono in coro e gli battono le mani in una scenetta molto berlusconiana. Ma è anche un modo per provare a scaricare la tensione. Fini beve un bicchiere d'acqua e prova ad analizzare. È rimasto colpito dalla replica immediata del premier subito dopo le sue parole: «Un leader di partito ascolta prima tutti gli interventi e poi replica». Poi detta la linea: «Gliele abbiamo dette. Ora tutti sanno che non stiamo zitti. Ora gli italiani sanno che c'è chi pone delle questioni politiche e chi no». Il resto è fuffa. La sostanza è questa: Fini si accontenta di aver portato a casa il risultato minimo. Aveva fatto capire di essere pronto a fare i gruppi autonomi alla Camera e al Senato. Poi contrordine, niente scissione ma solo una corrente interna. Niente corrente interna, meglio una componente politico-culturale. «Una piccola componente», dice lui sul palco dell'Auditorium. E lo stesso Gianfranco minimizza: «Io e alcuni amici». Alla fine il cofondatore del Pdl è soddisfatto di aver parlato, di aver posto le sue questioni, di aver sollevato dei temi politici. Di aver detto la sua. E di continuare a farlo. Non farà marcia indietro. Nel suo intervento, Fini aveva volato alto. Ma soprattutto per non farsi beccare dalla contraerei nemica, che poi è interna al Pdl, la cui arma più potente è il fischio. In verità l'intervento del presidente della Camera era stato svuotato dall'apertura di Berlusconi che gli aveva scippato almeno due elementi fondamentali. Il primo era la necessità di convocare un congresso, e il Cavaliere ha assicurato che ne vuole fare uno all'anno e nel frattempo pensa a convocazioni continue degli organi interni. Il secondo elemento è l'annuncio di voler procedere con riforme condivise, che era la grande richiesta del principale inquilino di Montecitorio. Così «alleggerito», al cofondatore erano rimaste questioni che possono apparire marginali. Protestava perché il Pdl non ha ancora fatto una proposta per le celebrazioni dei 150 anni dell'Unità d'Italia che si festeggeranno l'anno prossimo. Oppure chiedeva una commissione di governatori Nord-Sud che sorvegli sui decreti attuativi del federalismo fiscale. Per avere un quadro vale su tutti il commento di Peppe Scopelliti, neo governatore della Calabria: «Ma mi fa una domanda proprio su questo? Allora lei è veramente cattivo». Forse gli argomenti più pregnanti sono rimasti solo giustizia ed economia. Ma per valutare questi bisogna capire che cosa ha provato Fini quando è salito sul palco, ha aggiustato il microfono e ha guardato la platea. Per la prima volta in venti anni s'è trovato un uditorio, per giunta del suo partito, assolutamente ostile. Non era più abituato. Ormai s'era assuefatto alle folle plaudenti e adoranti come la democrazia mediatica impone. L'ultima volta che aveva dovuto affrontare una bella sala infuocata era accaduto nel 1990, congresso Msi di Rimini, quando perse la segreteria a vantaggio di Pino Rauti. Andrea Augello, oggi finiano (anche se lui rifiuta pure questa etichetta e più ecumenicamente si autoconsidera «uno che lavora per il Pdl»), era in sala quel giorno a sbattere le sedie e a fischiare Fini. S'accomoda a un tavolino del bar, prende un Moment in una pausa dei lavori: «Mi scoppia la testa, lì dentro c'è troppa confusione». Lui è stato il grande mediatore, colui che di fatto ha evitato la scissione. Ora glissa il sottosegretario romano: «Sono entrato a partita già iniziata. Anzi, ho giocato gli ultimi cinque minuti, gli ultimi cinque giorni». E negli ultimi cinque giorni la tensione è scesa ma Fini, nel momento in cui ha preso la parola ieri all'ora dei tg, sapeva che l'avrebbero potuto fischiare, contestare, non poteva esser certo di arrivare alla fine del suo discorso. È per questo che il suo intervento è stato tutto in difensiva. Stentorio. Aveva la bocca secca, cercava delle pause per parlare meglio e deglutiva di frequente. Ripeteva spesso lo stesso concetto, preso dalla sindrome del foglio bianco: non sapere che cosa e come dire. E più volte ha usato intercalari per mettere le mani avanti, quasi a conquistare la platea prima di dire qualcosa di sgradito. Frasi del tipo: «Spero che le parole non tradiscano il pensiero», «Non voglio equivoci», «È arrivata l'ora di dire tutto davanti a tutti altrimenti ci prendono per matti», «Non abbiamo intenzione di esser bastian contrari», «Vado fucilato per quel che ho detto?», «La mia volontà non è sabotare ma migliorare il governo», «Spero che si sia capito qualcosa di più». Ha recuperato temi di destra (evitando di parlare di immigrati) come la legalità, l'unità nazionale come se avviasse una piccola campagna elettorale interna. Per fare cosa? Per ora il Balotelli della politica, come dice Mario Landolfi: getta la maglia dopo una vittoria. Poi continuerà a dire la sua. Liberamente, schiettamente e coraggiosamente. Fare un po' la riserva della Repubblica con il 6% del partito e non tirarsi indietro. Sembra poco e forse non lo è.  

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