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Il governo ha usato la forza del diritto

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Dove,tre palle un soldo, si può abbattere ogni bersaglio. Una volta di più, tanto per cambiare, il bersaglio è il governo. Che, pensate un po', si è permesso d'impugnare davanti alla Corte costituzionale le leggi di tre regioni - e precisamente della Puglia, della Campania e della Basilicata - che impediscono nei loro territori l'insediamento di impianti nucleari. Ma dopo tutto il consiglio dei ministri, su proposta del ministro Scajola, non ha fatto altro che appellarsi all'articolo 134 della Costituzione. A norma del quale la Corte costituzionale giudica tra l'altro delle controversie relative alla legittimità costituzionale delle leggi e degli atti, aventi forza di legge, dello Stato e delle Regioni. Nessun atto d'imperio, dunque. Nessuno sgarro al federalismo prossimo venturo, come invece ha rilevato quella Vispa Teresa radicale che risponde al nome e cognome di Emma Bonino, in mancanza di meglio subìta dal Pd quale candidata alla presidenza della Regione Lazio. Ma un comportamento, quello del governo, irreprensibile alla luce del dettato costituzionale. Ciò doverosamente premesso, perché in tema di diritto è sempre bene mettere i puntini sulle "i", veniamo al sodo. Ha forse torto il governo a eccepire la legittimità costituzionale delle tre leggi regionali? Certo che no. Ma prima di procedere oltre, non ci resta che piangere sul latte versato. E non già dal centrodestra, bensì dal centrosinistra. Già, perché diciamocela tutta. La verità è che la riforma del titolo V della Parte seconda della Costituzione, concernente i rapporti tra Stato e Regioni, è un obbrobrio. È stata approvata in fretta e furia alla fine della XIII legislatura, anno di grazia 2001, da un centrosinistra con l'acqua alla gola. Timoroso di buscarle alle imminenti elezioni, come in effetti accadde, ebbe la bella pensata di porre in atto un'operazione demagogica che grida vendetta. Per fare in fretta, si sa, la gatta fece i figli ciechi. Così il centrosinistra si acconciò a una riforma senza capo né coda. Del resto, nel sostenere una simile tesi siamo in buona compagnia. Uno dei due relatori di questa riformucola costituzionale, l'allora deputato diessino Antonio Soda - ex magistrato, affermato avvocato, uomo intellettualmente onesto - in una lezione tenuta all'Università di Genova non si nascose dietro un dito e ammise di aver avallato norme che con il senno di poi non si sarebbe mai sognato di partorire. Tra le solenni sciocchezze ce n'è una che salta più agli occhi delle tante altre. Fa bella mostra di sé all'articolo 17. Là dove recita che tra le materie di legislazione concorrente c'è la produzione, il trasporto e la distribuzione nazionale dell'energia. Una disposizione che andava corretta quanto prima possibile, in quanto attinente al preminente interesse nazionale. E invece, a dispetto delle critiche piovute un po' da tutte le parti, sta ancora lì come se niente fosse. Si dirà che cosa fatta, capo ha. Perciò, finché non verrà cancellata, andrà rispettata a puntino. Sicuro. Ma è proprio qui, con rispetto parlando, che casca l'asino. Perché le predette regioni, all'insegna dell'egoistico «mai in casa mia», hanno adottato normative legislative ricalcate con la carta carbone, quasi che avessero una competenza esclusiva in materia. Le tre Regioni in questione, dunque, hanno fatto il passo più lungo della gamba. Del resto il governo, che legittimamente intende sfruttare la risorsa dell'energia nucleare a fini di sviluppo economico - come da gran tempo fanno molti Paesi, a cominciare dalla vicina Francia - non si è appellato al diritto della forza. Come insinuano gli ipercritici in servizio permanente effettivo. Bensì alla forza del diritto. Ma allora, perché tanto chiasso?

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