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In apparenza le primarie partorite dalle fervide menti del Pd e Tutankhamon, il faraone egiziano della fine della XVIII dinastia, non hanno nulla da spartire.

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Masì, entrambi portano una sfiga pazzesca. A sostenere questa suggestiva tesi non è un Pinco Palla qualsiasi. No, è Peppino Caldarola. Cioè uno che, fino all'attuale disincanto, la sinistra l'ha sempre vista dal di dentro. Conosce come pochi i suoi polli e perciò sa quel che dice. In effetti le primarie non hanno portato fortuna neppure al loro importatore. Politologo dalla testa ai piedi, nel 1990 Arturo Parisi indossa i panni di Alexis de Tocqueville e va alla scoperta della democrazia in America. A cominciare, si capisce, dalle elezioni primarie. Dopo aver studiato ben bene, felice come una Pasqua torna in Italia. E, manco fosse Giulio Cesare, dice pure lui: «Veni, vidi, vici». Venni, vidi e vinsi. Per il vero a vincere fu (il "fu", fateci caso, suona bene) il suo patrono, Romano Prodi. Nell'ottobre 2005, alle primarie dell'Ulivo, arrivò sì primo. Ma soprattutto perché gli altri concorrenti non avevano né babbo né mamma. Riuscì a conquistare per il rotto della cuffia Palazzo Chigi. Ma, come presidente del Consiglio, vivacchiò per meno di un biennio. All'insegna del tirare a campare, che è sempre meglio che tirare le cuoia. E poi fu costretto, come nell'ottobre del 1998, a fare fagotto. Anche Walter Veltroni nell'ottobre del 2007 stracciò nelle primarie i suoi avversari, poveri orfanelli in cerca di pubblicità. E come segretario del Pd non è durato in carica granché. Dopo la parentesi del tarantolato Franceschini, ora è la volta di Pier Luigi Bersani. Manco a dirlo, spalleggiato da D'Alema, in Puglia un perdente di successo. E giorno dopo giorno assistiamo al martirio di San Sebastiano. Le frecce gli vengono scagliate non solo dalla coppia (per la serie: attenti a quei due) Veltroni-Franceschini. Ma anche dai cacicchi sparsi un po' dappertutto. Che, primarie o non primarie, pretendono di essere candidati alla presidenza nelle imminenti elezioni regionali. Il guaio è che il Pd s'è impiccato alle primarie e adesso i nodi vengono al pettine. Lo Statuto del Pd è chiarissimo. Stabilisce all'articolo 18 che sono in ogni caso selezionati con il metodo delle primarie i candidati alla carica di sindaco, presidente di provincia e presidente di Regione. E all'articolo 20 prevede che, qualora il Pd stipuli accordi pre-elettorali di coalizione con altre forze politiche in ambito regionale e locale, i candidati comuni sono selezionati mediante elezioni primarie aperte. Del resto la mozione Bersani recitava: «Il Pd coinvolge gli elettori, attraverso le primarie, per selezionare le candidature alle cariche elettive… Partecipa alle primarie di coalizione con un proprio rappresentante scelto da iscritti e organismi dirigenti». Ora siamo invece al solito «contrordine, compagni». Facendo imbufalire l'opposizione interna, adesso Bersani se ne esce bel bello con queste parole: «Le primarie sono "un'opportunità" e non un obbligo, il partito non può essere un notaio che si limita a stabilire il regolamento delle primarie». Ecco, dunque, la morale della favola. Ha ragione Caldarola: le primarie portano iella. Mentre il mancato ricorso alle primarie - come nel Lazio, in Puglia, forse in Umbria e altrove - fa registrare una lotta senza esclusione di colpi tra bersaniani e fra

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