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I miei angeli custodi del Lince

Davide Ricchiuto e Matteo Mureddu, due dei sei parà italiani uccisi a Kabul

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Io che su quel lince c'ero. Non so se è lo stesso lince, ma so che tra i sei militari italiani della Folgore, ieri, c'erano Matteo Mureddu e Davide Ricchiuto che, giorno dopo giorno, hanno vegliato sui miei spostamenti da Camp Invicta al centro di Kabul. Io su quel lince c'ero. Perché ogni lince è uguale all'altro. E ogni volta che si fa rientro nella base, che sia Camp Invicta o Camp Arena, ad Herat, quello che si pensa è: anche questa volta è andata. Alcuni soldati lo dicono apertamente, altri sdrammatizzano e ci scherzano su  mentre scaricano le armi e si slacciano l'elmetto, ma il pensiero è sempre quello. Non è un'idea fissa, altrimenti sarebbe impossibile trascorrere anche otto ore all'interno di un blindato che, fino a ieri, veniva definito tra i militari «santo lince», perché tanti ne aveva salvati, da esplosione su Ied ai bordi delle strade o posizionati sotto il manto stradale, che nel selvatico Afghanistan, è un lusso poco diffuso. Ma contro un'autobomba imbottita di decine e decine di chili di esplosivo non c'è molto da fare. L'unico antidoto alla paura è il fatalismo. Il fatalismo e, allo stesso tempo, la consapevolezza che trapela da ogni singolo gesto, fatto con metodo. Sono questi gesti che hanno reso più sereno anche «il mio primo lince», grazie alla sicurezza, mista a gentilezza, di Matteo e degli altri ragazzi che, lo scorso agosto, mi hanno iniziato al rituale del blindato: giubbotto, elmetto, cinque cinture di sicurezza, per non rischiare di essere sballottati in caso di qualche scoppio, e sportelli sigillati con la chiusura antimine. «Nessuno di noi sarà mai avvolto da uno scudo spaziale», aveva detto ironizzando uno di loro. Il rischio è messo in conto e accettato perché sono soldati. Lo sono anche se ti aiutano nella contrattazioni con i venditori afgani che gestiscono gli spacci nelle basi, come se fossi in un suk di una qualunque località turistica, o se ti mostrano la foto della figlia al mare. Sono soldati anche se hanno il volto di ragazzi di vent'anni o poco più e se ti dicono, come Davide, «appena vengo via da qui, se Dio vuole, mi spendo metà della missione in una vacanza di un mese a Santo Domingo. Perché me lo merito». Se Dio vuole... Sono militari e quello che è successo, ieri, fa parte del «gioco». E forse, in fondo, lo stavano aspettando.   È per questo che ogni auto che non rallenta al passaggio dei blindati o che sorpassa e finisce sulla corsia opposta, in contromano, viene interpretata come una potenziale minaccia. E, allora, lì ad interpretare ogni cambiamento del tono della voce per valutare il livello della tensione, con la sensazione di poter controllare o incidere sugli eventi. La maggior parte delle volte si tratta di un falso allarme. Non sempre. Matteo e Davide, li avevo chiamati, titolando una foto afghana sulla mia pagina Facebook, «gli angeli custodi del lince». Li saluto così.

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