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Fini a Marcinelle: "Oggi come allora rispetto per gli immigrati"

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Gianfranco Fini alla commemorazione della tragedia di Marcinelle del 1956

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Chiede di andare a piedi dal cimitero al luogo della tragedia dove c'era la grande miniera del rogo dell'8 agosto di 53 anni fa. Era il 1956 e lì morirono 136 italiani. Gianfranco Fini, proprio nel giorno in cui entra in vigore il reato di immigrazione clandestina, si ferma a parlare con qualcuno di quegli ex minatori italiani. Ce n'è uno, con tanto tuta da lavoro blu e casco in testa, che gli chiede di fare qualcosa «perché anche noi ci si possa sentire italiani in Italia, quando arriviamo all'Autogrill ci prendono in giro. Dopo tutto quello che abbiamo passato quaggiù». Ce n'è un altro che gli chiede aiuto per ritrovare almeno un frammento del padre scomparso nelle viscere della terra della cava di Bois du Cavier. Ci sono le donne, che parlano ancora il dialetto pugliese di mezzo secolo fa. Una lingua quasi incomprensibile. Il cielo plumbeo, a tratti nuvoloso, l'aria fresca rispetto all'afa capitolina. Il presidente della Camera, il primo che sia venuto qui a celebrare questa data, accende una sigaretta. Si guarda attorno, guarda le case basse. «Quando gli italiani vennero qui erano considerati i "musi neri" - commenta -. Li mandarono a vivere nelle baracche che ospitavano i prigionieri di guerra. Prima quelli sovietici e poi quelli nazisti. Insomma, li mandarono a campare nei lager. E li costringevano a lavorare sotto terra, in appena cinquanta centimetri come se fossero cani». Cammina Fini vestito di un completo chiaro, una camicia rosè e cravatta rosa. Fuma e riflette: «Ricordiamolo. Ricordiamo». Il ricordo di quello che eravamo. Il ricordo di quello che sono coloro che arrivano oggi in Italia. La guida vallone spiega come i fiamminghi siano assistiti, Fini sorride e spiega nel suo fluente francese imparato a Marsiglia da ragazzo come in Italia il dibattito è lo stesso. Comincia a grattarsi il lato superiore della mano. Arriva la celebrazione. Comincia Mirko Tremaglia che senza tanti giri di parole avverte: «No al reato di immigrazione clandestina, non si può perseguire uno che non ha commesso niente». Il numero uno di Montecitorio rimane in piedi immobile, fa un leggero movimento di approvazione con le sopracciglia. Tocca a lui. Legge il messaggio di Napolitano. Chiude in quattro il foglio con il discorso ufficiale, sul retro appunta appena le persone da ringraziare a cominciare dall'ambasciatore Siggia. Va a braccio e premette che «è difficile non essere d'accordo con le parole del Capo dello Stato e con Tremaglia, difficile anche aggiungere qualcosa». Vola alto, sottolinea il «dovere delle istituzioni»: ricordare. Ricordare coloro che morirono, gli italiani d'Abruzzo (con il tragico sacrificio di Manoppello che pianse 22 vittime), della Puglia «ma non furono solo italiani del Meridione a pagare, anche quelli del Friuli, del veneto, della Lombardia: furono tanti a dover emigrare anche dal Nord». Un attimo di fiato: «Lo ricordino quei politici che oggi rappresentano proprio il Nord». Il filo è ieri-oggi: «Quei nostri connazionali considerati "musi neri", che lavoravano in condizioni di schiavitù, che vivevano per mandare il denaro a casa, non sono molto diversi dai lavoratori stranieri che oggi giungono in Italia. Quei lavoratori sarebbero stati definiti extracomunitari, magari con un certo disprezzo, se ci fosse stata l'Unione europea». Cambia il tono della voce e avverte: «Al centro dell'economia c'è il lavoro, non il capitale o la classe. Dimentichiamo le ideologie e pensiamo al lavoratore. Che deve essere rispettato. Sempre. In ogni modo. Sono un diritto e un dovere della società assicurare anche la sicurezza sul lavoro. Non può essere una fatalità che ancora si muoia sul posto di lavoro». Quindi entra nel merito: «È inammissibile che un uomo e una donna vengano considerati il momentaneo supporto di cui ha bisogno la società. Chi lascia la propria terra lo fa perché ne ha bisogno, poi nascono i figli, le seconde generazioni, e quelle persone non sono più stranieri». Il volto di Fini si ingrugnisce, gli occhi fermi, scandisce le parole: «Coloro che pensano alle politiche dell'immigrazione considerando i lavoratori stranieri come persone che oggi servono e domani non più - insiste il presidente della Camera - non hanno capito niente perché non conoscono la nostra storia e non sanno che in certi luoghi si rimane». Al contrario, secondo il principale inquilino di Montecitorio, è compito della politica «tramandare la storia dell'emigrazione italiana», sia ai giovani italiani, sia a coloro che «saranno italiani pur essendo nati altrove». Vanno difesi, per Fini, anche i sans papier, coloro insomma che non hanno un permesso di soggiorno. Gli applausi, ancora un giro negli edifici dagli squallidi mattoni rossi, una visita alle lapidi, un momento di raccoglimento, un bicchiere di Pinot grigio per distendersi. Saluti e di nuovo verso l'aeroporto di Charleroi. Fini non era mai venuto a Marcinelle, ricorda di essere stato agli inizi degli anni Novanta poco distante. Ancora prima fu a Bruxelles con Almirante. Sull'aereo che lo riporta in Italia, Fini fa in tempo a scambiare qualche battuta per liquidare la sortita leghista sul Tricolore come una «boutade estiva». Ma c'è tempo, «ne riparleremo dopo le vacanze: oggi abbiamo già detto abbastanza».

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