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I due volti di Obama

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DaObama al Pakistan, dalla politica interna degli Stati Uniti a quella estera passando per i malumori dell'esucutivo americano. Questi sono alcuni dei temi trattati con Edward Nicolae Luttwak, politologo di fama internazionale ed esperto di politica americana e di Medio Oriente. Il tutto, senza dimenticare di soffermarsi sulla figura del Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi e di come venga giudicati al di là dell'Atlantico: «L'idea che c'è in America del vostro premier un misto». Professor Luttwak, a che livello sta parlando? «A livello di governo, a livello di Obama». È un misto perché? «Uno, tutti capiscono che Berlusconi ha combattuto la battaglia politica e l'ha vinta; nessuno può negare la sua vittoria. Due, i comportamenti di Berlusconi continuano ad essere imbarazzanti per loro e per lui stesso. Non per gli scandali, che tutti considerano fatti suoi, ma perché nelle riunioni Berlusconi non si comporta come il leader della settima potenza economica mondiale, si comporta come un clown. Questo significa che i leader non lo vogliono nella stanza quando si discute, o meglio quando si decide: e questo è il terzo elemento. Quarto, Obama stesso riconosce che quando è arrivata la crisi Berluscni è stato il primo a dire che bisognava nazionalizzare le banche e denazionalizzarle dopo che fosse passata la bufera. Tutti i leader storcevano il naso ma tutti gli esperti economici davano ragione a Berlusconi. E adesso tutti dicono che il premier italiano era l'unico o il primo ad averci visto giusto». Be', alla fine gli si riconosce questo merito. «Non c'è dubbio. Riconoscono che quando lui esce con una dichiarazione specifica normalmente ha ragione. Ci sono i vertici internazionali, ce n'è stato uno davvero importante che era il G20. Berlusconi ha detto a tutti: ragazzi, c'è da nazionalizzare le banche, rimetterle a posto e ridarle ai privati. Era l'unico a dire queste cose e alla fine gli hanno dato tutti ragione». Sono quattro elementi così diversi, come possono convivere in una sola persona? «Possono eccome. Non è un minestrone, sono considerazioni diverse della stessa persona». Berlusconi però rivendica il fatto di essere un clown perché considera questo un modo per avere rapporti migliori con gli altri leader. «La realtà è che manca di disciplina. Se gli italiani sono azionisti e l'Italia è un'azienda, dal loro punto di vista c'è un impatto reputazionale». Che impatto? «La reputazione è un investimento. Quando c'è un imprenditore italiano che si siede a Pechino per offrire un tunnel per la metropolitana e c'è un altro imprenditore che offre lo stesso tunnel, il fatto che Berlusconi è visto come un clown ha un peso. L'imprenditore italiano è costretto a pagare questo fatto». A pagare? «A pagare certo. Quelli che sostengono Berlusconi, e hanno ottime ragioni per farlo, dovrebbero non incoraggiarlo a questa mancanza di disciplina. Non è inerente al personaggio. È una deriva dovuta al fatto che in Italia non c'è opposizione». Crede che la mancanza di opposizione sia il vero problema per Berlusconi? «Non solo. Ma anche la stampa è persistente, irritante, omnidirezionale e soprattutto non inesorabile. Qui non c'è il Washington Post che abbatte un Nixon. E non perché fa domande ma perché ogni giorno tira fuori nuovi fatti, perché investigano, studiano, lavorano, si danno da fare e poi scrivono nuove cose inoppugnabili». Come le sembra la stampa italiana? «Come delle anatre che cercano di ucciderti morsicchiandoti le caviglie. L'effetto è che non essendo critiche inesorabili, Berlusconi non le prende sul serio». Insomma, è anche colpa delle critiche poco serie? «Se fossero serie lo aiuterebbero ad essere meno indisciplinato». E invece? «E invece sono così. E alla fine Berlusconi può giustamente pensare che anche se fosse serio, impassibile come il Vaclav Klaus, il presidente della Repubblica Ceca, lo attaccherebbero lo stesso. E quindi continua a comportarsi così». Come valuta la politica estera di Berlusconi? «Nel 2001-2006 ha fatto una politica di massimo allineamento agli Usa e assolumente pro Israele. Non ha avuto attacchi terroristici. Gli spagnoli e gli inglesi erano molto più implicati rispetto agli italiani e invece lo hanno avuto». E come è stato possibile che l'Italia lo abbia evitato? «Perché la leadership italiana ha dato una linea chiara. La polizia e i servizi segreti poi si sono adeguati. Così, chi pensava di fare un attentato in Italia è stato fermato prima». L'asse Italia-Usa spiega anche l'asse Fiat-Chrisler? «No. Negli Stati Uniti si guarda solo al business plan». D'accordo, ma in questo caso è toccato al governo decidere. «Sì, è vero. Ma solo sulla base di un business plan. La Fiat era l'azienda che prima possibile avrebbe potuto dare in breve tempo le linee per le auto piccole e a basso consumo. C'erano solo i giapponesi». E perché i giapponesi non si sono fatti avanti? «Perché sicuramente ci sarebbe stato un problema di di monopolio sul mercato, avrebbero acquisito una quota troppo ampia». Secondo lei il mondo come sta guardando Obama? «Obama stesso sta guardando se stesso. Solo da due settimane ha capito che non si può fare il presidente solo con i discorsi. Lui viene da un passato senza alcuna esperienza gestionale, non è stato sindaco né governatore». Che cosa lo ha convinto a cambiare passo? «Il Tesoro. È pieno di tanta brava gente ma un paio di settimane fa Obama è andato lì e ha capito che lui non può andare in giro a fare discorsi. Deve spingere e sorvegliare. Lo scenario che deve evitare è che, avendo stampato tanti dollari, deve fare in modo che l'inflazione non salga nei prossimi tre anni. Se va al 10% lui perde le elezioni». Che cosa ha convinto Obama a intervenire direttamente nella gestione del Tesoro? «La stampa. Sono usciti molti articoli sul fatto che metà dei posti non erano stati ancora nominati, non c'è ordine gestionale, non sanno evadere le domande, non sono riusciti nemmeno a chiarire la questione del pagamento di Wagoner. Il giornalismo investigativo che non guarda alle persone che governano ma solo ai fatti ha evidenziato che bisognava intervenire. Obama ha visto e s'è spaventato». Ma quali sono i problemi gestionali? «Obama ha scelto come capo della sua segreteria Larry Summers e Timothy Geithner segretario del Tesoro. Qui è sorto il problema, almeno sul livello umano dato che Summers in passato era il segretario del Tesoro e Geithner era il suo vice. Questo ha creato frizioni tra i due. Poi in politica estera c'e contrapposizione tra il segretario di Stato, Hillary Clinton, e il consigliere per la Sicurezza, il generale James Jones. Lui ad esempio la vede come la moglie di quello che non ha fatto il servizio militare. Hillary, che si contendeva il posto con lui, lo ha accusato di tutto e ha denunciato le sue mancanze». Attriti che sono all'ordine del giorno per chi fa politica. «A Washington è leggermente diverso. C'è molta gente che si occupa di politica estera e i democratici sono divisi tra "pro Clinton" e "pro Obama". Quando Hillary è diventata segretario di Stato ha sistemato tutti i suoi sostenitori escludendo quelli vicino ad Obama. Così questi sono rimasti senza incarico e oggi continuano a lamentarsi con Obama. Il risultato? Chi ha vinto ha perso e chi ha perso ha vinto». Perchè su Guantanamo ha vinto la linea di Dick Cheney? «Obama su Guantanamo ha la sua strategia: essere prudente e conservatore per quanto riguarda la politica estera e della difesa mentre essere radicale in politica interna spingendo ad aumentare le tasse ai ricchi e a riformulare lo stato sociale. Questo gli permetterà di dividere l'opposizione dato che in America ci sono quelli che sono "falchi" ma anche riformatori. Questi sono i neoconservative: liberali in politica interna e "falchi" in estera. Per questo Obama ha aumentato le truppe in Afghanistan e, in Iraq, il programma di ritiro va più lento di quanto stabilito da Bush». E per quanto riguarda Iran e Pakistan? «Sono problemi che esistono da molto tempo. L'Iran, detenendo la bomba, mette tutti, ma soprattutto Israele, in pericolo. Ecco allora che Israele ha posto, come limite massimo, la fine dell'anno affinché la diplomazia tra i due stati risolva la questione, altrimenti procederanno con i bombardamenti». In Pakistan invece la bomba ce l'hanno? «Il Pakistan è un disastro. Il presidente di quel paese, Asif Ali Zardari, è stato condannato per estorsione. Il capo dell'opposizione, Nawaz Sharif, è un mega truffatore: ha fatto la sua fortuna con l'olio vegetale che comperava e diluiva con acqua e lubrificanti automobilistici. Il secondo punto è che l'intera elite pakistana crede ancora di essere forte contrapponendosi all'India. In realtà loro sono debolissimi. Il Pakistan vive un falso. Ovvero pensa di potersi misurare sullo stesso piano con l'India e, nonostante questa crisi, mantengono il 90% dei soldati sulla frontiera indiana. Il fatto è che non possono permetterselo economicamente e creano così grandi falle nel bilancio dello stato. E poi puntano tutto sullo sviluppo del nucleare e non investono per mantenere l'ordine pubblico». Gli Stati Uniti cosa possono fare? «Ci sono 160 milioni di pakistani e nonostante tutto loro persistono a generare un'elite disastrosa e scandalosa. Pensi ad esempio a Benazir Bhutto, l'ex premier, uccisa in un attentato il 27 dicembre 2007 e che ora tutti invocano come martire, in realtà ha fatto di tutto per sabotare la pace con l'India. È stata il peggior governante che ci potesse essere e il marito, attuale presidente del Paese, la appoggiava». E perché allora ve ne occupate? «Perché c'è il pericolo della bomba. E se così fosse sarebbe doppiamente rischioso dato che alle spalle manca un governo stabile che potrebbe arrivare invece a sganciarla sull'India. Gli Stati Uniti potrebbero dire: "Fate voi, arrangiatevi" oppure "Ci pensi l'Onu". Ma non lo fanno perché c'è un sentimento di responsabilizzazione». Se il XX secolo è stato quello degli Usa, il XXI sarà quello della Cina? «Si è possibile ma non della Cina di oggi. Perché se vorrà esserlo, dovrà puntare molto di più sulla democrazia che ad ora manca completamente e questo li sta distruggendo. Fanno dieci passi in avanti e sette in dietro. A causa di questo, per esempio, nel sud della Cina non c'è libertà di stampa, non c'è un Parlamento che possa legiferare democraticamente e i sindaci diventano capo della polizia, del bordello e della gang».

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