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Non è solo un momento triste e difficile per il Pd. È anche ...

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L'uno-due del tracollo sardo e delle dimissioni di Walter Veltroni ha dato l'impressione di un esercito ormai in rotta. Eppure è nei frangenti di massima crisi che si possono cogliere le decisive possibilità di riscatto. E noi democratici, adesso, abbiamo il dovere di farlo. Il paese non può fare a meno del Partito democratico, di un grande rassemblement (perché di questo si tratta) riformista che ambisca al governo dell'Italia da posizioni avanzate, moderne, progressiste. È per il bene del paese, dunque, non solo per il bene del Pd che ora non dobbiamo farci afferrare dal clima da 8 settembre che ci ha pervaso tutti anche dopo aver ascoltato il discorso di Walter Veltroni a piazza di Pietra. Non un gran discorso, a mio modesto avviso: Troppo indulgente con se stesso, il segretario dimissionario; troppo rivendicativo con gli altri dirigenti, colpevoli di non avergli garantito la necessaria «solidarietà». Ma siamo sicuri che un leader debba invocare sostegno solidale? Un leader deve esercitare la leadership e Veltroni l'ha fatto bene dal discorso del Lingotto fino a tutta la campagna elettorale dello scorso anno, con l'intuizione di portare il Pd da solo alle elezioni che ha avuto il merito di modificare in meglio il sistema politico italiano, conducendolo all'anticamera del confronto bipartitico di stampo anglosassone e riducendo finalmente la frammentazione che stava asfissiando il Parlamento italiano. Da allora in poi, le esitazioni che hanno fatto seguito ai disastrosi risultati elettorali, non solo delle politiche, ma soprattutto delle amministrative a Roma e in Sicilia, hanno condotto il Pd alle condizione pessime in cui si trova ora. Se le dimissioni confermate ieri fossero state date prima dell'estate, il Pd avrebbe avuto il tempo per ricostruire una propria identità e una propria classe dirigente completamente rinnovata. E siamo al punto. Ora, con una tempistica francamente complicata, stretti tra un'assemblea costituente convocata tra quarantotto ore e una campagna elettorale per le europee che si aprirà tra cento giorni, dobbiamo provare il colpo d'ala. Io sono contrario a soluzioni raffazzonate, la segreteria dimezzata di un reggente non mi convince, preferirei votare sabato per Dario Franceschini assegnandogli un mandato pieno. Ma quel che più conta, vorrei che il nuovo segretario cogliesse l'occasione di questa condizione disperata per rivoluzionare davvero il partito. Non ha bisogno di partire dal nulla, la rivoluzione l'hanno cominciata già in molti. Penso alle esperienze degli under 40 di Generazione U, dei Mille, degli Autoconvocati, della Fondazione Daje, di Matteo Renzi a Firenze, dei firmatari della mozione per le primarie alla direzione del 19 dicembre scorso, di tantissimi che sono stati in posizione critica rispetto a una segreteria che è stata ingessata: sembravano tutti covi di pericolosi rivoluzionari, irrispettosi dei rituali interni. Ora sono le sacche di sangue fresco utili a rimettere in sesto un corpo martoriato come quello del Pd. Possiamo davvero far ripartire con entusiasmo il Partito democratico, dopo questo frangente di cupa depressione. Dobbiamo però essere disposti a rimetterci davvero tutti in gioco e i soliti noti devono avere la generosità di cedere il passo. Comincia un tempo nuovo, servono idee nuove che camminino su gambe nuove. Come è avvenuto al New Labour di Blair, al Psoe di Zapatero, al Partito democratico di Obama, si può costruire la sconfitta di destre forti e radicate avviando una lunga marcia che reinventi una classe dirigente capace di essere faccia di un partito nuovo. Questa rivoluzione è necessaria ora anche per il Pd. * Membro della direzione nazionale del Pd

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