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Era prevedibile che il voto della Sardegna avrebbe ...

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Fare finta di niente non sarebbe stato serio. Forse era meglio evitare un gesto così drastico, se non altro per consentire l'approfondimento delle ragioni che segnano le difficoltà di un partito nato appena un anno e mezzo fa per dare corpo e voce all'ansia di cambiamento dell'Italia. Veltroni, lasciando, pone il gruppo dirigente di fronte a una scelta a dir poco impegnativa. Ci sono questioni di procedura, vincoli statutari, argomenti tecnici: come fare, dovendo sostituire un segretario eletto dalle primarie, a garantire una base di credibilità e autorevolezza al nuovo vertice politico? La proposta di una reggenza probabilmente affidata a Dario Franceschini (anch'egli legittimato dalle primarie) vale come misura di emergenza, ma non possiede allo stato degli atti i crismi di una soluzione definitiva. Nell'immediato è la risposta che consente di bloccare una rincorsa disordinata alla ricerca di responsabilità palesi o nascoste. In ogni caso il dibattito che si annuncia non può essere generico o reticente. Tutto il partito è chiamato a interrogarsi sulle cause che hanno prodotto, a dispetto di grandi mobilitazioni di piazza e notevoli prove d'entusiasmo, una catena d'insuccessi specialmente nelle ultime vicende elettorali. Si tratta di porre in evidenza un interrogativo molto semplice: il fallimento riguarda in realtà la dimensione organizzativa e gestionale, essendo valida la proposta e la linea politica adottate, oppure dietro gli aspetti attraenti della conduzione veltroniana si nasconde una fragilità, e quindi una insufficienza, del progetto su cui è stato edificato il Partito democratico? Il pensiero da cui muoveva la riorganizzazione dell'area democratica e riformista, attraverso l'abbandono delle rispettive ambizioni di Ds e Margherita, immaginava la possibilità di aggregare un consenso molto ampio (addirittura attorno al quaranta per cento) proprio in virtù dell'amalgama di radicalità e moderazione. Per questa via il Partito democratico si candidava ad assumere una centralità di funzione e posizionamento politico. E pertanto la rottura con la sinistra radicale contemplava, nella fattispecie, l'ipotesi di un riordino del sistema politico e insieme l'avvio di una nuova esperienza, mai conosciuta nel passato, del riformismo italiano. Il principale fattore di crisi si può dunque rinvenire nella mancata realizzazione di questa premessa tanto eloquente. In sostanza, il Partito democratico non è parso nella condizione di riuscire nell'impresa di sfondare al centro, oscillando durante i suoi pochi mesi d'esistenza tra evoluzioni e chiusure improvvise, quasi a riprova di una resistenza ad accogliere la sfida di un'inedita prospettiva riformista. Ed in ultimo, anche qualche radicalismo di troppo ha finito per alienare le simpatie e le attenzioni di un'area - sempre decisiva ai fini della conquista della maggioranza del Paese - che sente l'esigenza di coniugare sempre innovazione e gradualità come forma intelligente di governo. È questo l'orizzonte a cui deve guardare il Partito democratico. Se indietro non si torna, come usualmente si dice, nemmeno può accadere che si torni a coltivare le ambivalenze di un movimentismo senza sbocco politico. *senatore Pd

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