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Quel che conta è la ragionevolezza

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Rossi fa parte di quella rara specie di filosofi italiani che non gioca con le parole, spacciandole per concetti, ma usa i concetti per spiegare la storia e la cultura umane. In questo luminoso libretto, significativamente intitolato Speranze, la questione critica emerge nettamente: le apocalissi annunciate e le profezie di sventura sono finzioni ideologiche e retoriche. Quel che conta, nella vita e nella storia, è la ragionevolezza, quel temperato e pacato modo di guardare le cose, che genera una ragionevole speranza. Perché il mondo non è né buono, né cattivo, in sé, è soltanto la patria degli uomini, "legni storti", destinati a vivere come canne sbattute dal vento, trattenendo nel cuore molti desideri e poche certezze. Figuriamoci certezze metafisiche. Qui Rossi recupera Freud e la sua celebre tesi circa "l'avvenire di un illusione", la suprema illusione, l'esistenza di un Dio Salvatore; nessun Dio ci può salvare, dunque? Le parole del ragionevole filosofo non arrivano fino all'orlo dell'abisso delle negazione, perché perfino l'ateismo è merce rara e pesante da portare addosso. Certo non hanno ragione quei pessimisti ad oltranza, credenti e non credenti, che immaginano di uscire dall'Occidente malato spiritualmente per approdare all'unico "Principio-Speranza" possibile, naturalmente mai noto al popolo ed agli ignoranti, qualcosa da salvaguardare e diffondere come il Verbo della Storia. Gli apocalittici sono come quegli estremisti di professione, saggiati in alcune magnifiche pagine da Berardinelli, tutti uguali, almeno a prima vista: incapaci di sostenere l'imperfezione e lo scandalo del male nell'uomo finito e peccatore. Una logica non laica e non critica, inapplicabile alla storia ed alla società. La storia non ha la lettera maiuscola e non può essere letta come il vaticinio della Salvezza prossima ventura. «Che la storia possa essere interpretata e illuminata dalla filosofia, che la storia venga pensata come un Destino, è stata la Grande Illusione del Novecento, nata dal bisogno di tamponare, con una nuova mitologia, il vuoto lasciato dalla crisi della religione e di rispondere ad una nostalgia dell'Assoluto». In realtà, le ideologie o le "grandi narrazioni", per dirla con Lyotard, non riescono a sostituire le religioni e le concezioni del Sacro, fanno altro e lo fanno efficacemente: indicano la strada dell'emancipazione umana attraverso la scorciatoia della prassi umana, rovesciando, così, la religione, per farsi eresia storica. Le ideologie che vogliono tutto e vogliono che l'uomo obbedisca ai dettami etici assoluti da essa imposti, anche con la forza, non sono religioni mascherate, sono, piuttosto, eresie portate alle estreme conseguenze. La religione non si sostituisce mai con niente, ma può essere calpestata e rovesciata in altro da sé. Il comunismo fu questo. Il nazismo fu il paganesimo violento elevato a principio della narrazione universale. Questo fu il Novecento: l'Eden del rovesciamento della religione in altro da sé. Più che «nostalgia dell'assoluto», una scientifica operazione di snaturamento dell'etica umana e naturale. Cioè, di quanto di più palpabile avesse prodotto la religione cristana, in particolare, ma non solo essa, anche l'ebraismo. In questo disegno colossale di violenza perfettistica, direbbe Rosmini, o costruttivistica, secondo Hayek, trionfa l'intolleranza e la presunzione fatale di possedere quanto l'umile sapienza religiosa non ha mai preteso di trattenere tra le mani, cioè il Sapere Assoluto. E chi non capisce e non si adegua è colpevole, sul piano etico ed intellettuale, dunque merita l'annientamento storico. Con tanto di indignazione da parte dell'intellettuale illuminato di turno. L'Europa che si auto fustiga ad ogni piè sospinto, al pari dell'accademico che desidera con tutte le sue forze uscire dal grembo culturale che lo ha generato e gli ha, per giunta, consegnato il pulpito dal quale pontifica: pari è, osserva acutamente Rossi, quel che manca è sempre la medietas, la ragionevolezza, il senso critico. Tutto molto dis-umano e triste. Con appendici dedicate alle catastrofi ambientali, climatiche, culturali, nichilismi vari ed affini. Si tratta, naturalmente, di esagerazioni, ma soprattutto, aggiungerei, di ideologie legate ad una Tesi che si vuole imporre ad ogni costo, anche a discapito della ragionevolezza e perfino della semplice osservazione. In un mondo senza speranze, non rimane che aggrapparsi ai Vati; ma in un mondo in cui abita la ragionevole speranza di essere, fare e migliorare, c'è spazio per tutti e non vigono gli assoluti terrestri. Rossi sembra accennare, con queste ultime riflessioni, alle tesi di Antiseri, non a caso popperiano di razza, sullo scetticismo laico e cristiano di fronte agli «assoluti terrestri». Antiseri sostiene, giustamente, che anche il credente deve essere scettico e non assolutista di fronte agli «assoluti terrestri», cioè le ideologie elevate a sistemi universali di pensiero e di condotta. Una tesi sulla quale riflettere bene e con la quale confrontarsi adeguatamente. Un modo di vedere la realtà storica ed umana prossima a quel profilo di «allargamento della ragione» proposto da Benedetto XVI, che, dedicando un'enciclica, la Spe salvi, alla speranza, viene citato, in conclusione, da Rossi: la ragionevolezza umana è frutto anche del realismo cristiano, oltre che della ragion critica laica. Il monito di Benedetto XVI a «perseverare con ogni sobrietà, giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto» rappresenta la lingua della comune fede dei laici e dei cattolici. Appunto, in un mondo, per sua natura, imperfetto. Ma perfettibile. Il nostro.

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