Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

Villari: "Il mio posto lo voleva Morri"

Villari (foto Pizzi)

  • a
  • a
  • a

Rivedere e salutare di nuovo in un ristorante rigorosamente partenopeo in piazza Augusto Imperatore visto che da quasi un mese si è rintanato a Palazzo San Macuto. E infatti lui, viene subito invitato a tenere un piccolo discorso. «Parlo di tutto ma non della Vigilanza Rai», avverte alzandosi. Seguono pochi minuti di parole appassionate sulla squadra di Reja che è tornata in serie A, è tornata a vincere, vola nella vetta della classifica. E insomma, «lasciateci sognare», dice un appassionato Villari con le mani protese verso il cielo. Applausi e promessa ai soci: «Presto andremo al ritiro con la squadra». Si siede, al suo fianco Gaetano Quagliariello, vicecapogruppo del Pdl anche lui pervaso di passione biancazzurra. «Presidente - dice - propongo di adottare un nuovo inno per il nostro club: meno male che el pocho (il soprannome dell'attaccante Lavezzi, ndr) c'è. E chiedo una dispensa: per conto del presidente Berlusconi devo andare a parlare con i tifosi del Pescara visto che mi occupo delle elezioni di Abruzzo. Ma vado solo se ho la dispensa del presidente Villari». E Villari ride: «Vai vai». Risate generali. Il menù è fisso: si può solo mangiare pizza, al massimo mozzarella, ma rigorosamente di bufala. La serata scorre veloce, Quagliariello va via e Luigi Compagna, altro senatore Pdl, ricorda di quando era suo assistente. Villari chiacchiera con Maurizio Iapicca, deputato, altra vecchia conoscenza berlusconiana. E poi con i due vicepresidenti del club, Gioacchino Alfano (Pdl) e Costantino Boffa (Pd); più in là c'è un altro deputato veltroniano, Bruno Cesario che però avverte Villari: «Non c'è Napoli che tenga, Riccà ti ha' dimettere!». Villari sta al gioco e si mette a chiacchierare con gli altri deputati. Gli chiedono dei giorni dell'elezione alla Vigilanza e lui rompe il ghiaccio: «Ma che vi devo dire. Mi sono solo reso conto dell'essenza di alcune persone». E cioé di chi? «Guardate, io ho fatto solo quello che dicevano gli altri. Poi, quelli che mi hanno dato i suggerimenti se ne so' fujuti, scappavano di qua e di là. Come se non ricordassero nulla». Ma chi, Riccà? «Orlando si sapeva non sarebbe mai stato eletto. Pure Di Pietro lo sapeva e forse neppure lo voleva. Lui voleva il consigliere di amministrazione in Rai, tutto qua. E lo si era capito. Orlando alle votazioni non ha mai avuto più di 11, al massimo 13 voti: noi dell'opposizione siamo 18, quindi almeno cinque tra noi non l'hanno mai votato. Di fronte a tutto ciò, era chiaro che si sarebbe cercata un'altra soluzione». E il Pdl t'ha chiamato? «A me non ha chiamato nessuno. Anche perché c'erano stati altri nel mio gruppo che si erano offerti alla maggioranza». Chi, Riccà? Ce lo devi dire... «No, nomi non ne faccio - si schernisce lui -. Non ho mai rivelato i contenuti di colloqui personali, non si fa. Ma uno però lo devo dire». Chi? Chi?, gli domandano gli amici ansiosi. «Quello di Morri, il capogruppo del Pd in commissione. Addirittura in una riunione tra noi ci aveva anche detto: "Guardate, che se mi votano io non mi dimetto". 'Azz, lui non si sarebbe dimesso e chiedeva a me di dimettermi. Ma cose da pazzi. In un primo momento non ci avevo fatto caso, quando mi sono letto le sue parole riportate nell'articolo di Pansa mi sono detto: "Allora vado fino in fondo"». E allora? Villari, camicia a righine, giacca chiara e cravatta blu, ogni tanto si passa l'indice attorno al collo. Ha caldo. Continua il racconto: «Ho fatto il ricorso al gruppo contro la mia espulsione». Ma poi perché l'hai ritirato? «I giornali hanno scritto un sacco di fesserie. Adesso vi spiego. Ho fatto il ricorso perché il regolamento prevede che se c'è un ricorso, l'accusato abbia la possibilità di parlare all'assemblea plenaria, a tutti i centoquindici senatori. Era quello che volevo. Volevo per una volta andare a raccontare tutta la mia verità. Dire che c'era chi nel gruppo voleva essere eletto e restare in carica, chi trattava con la maggioranza. Ecco, c'era Morri in prima fila seduto lì, muto, zitto. Mi bastava questo, era quello che volevo. A quel punto potevo ritirare il ricorso. D'altro canto a votare era solo il direttivo, sono in quindici. Follini avrebbe votato contro, altri si sarebbero astenuti, in tutto almeno sette erano con me. Ma non avrei mai fatto nulla per spaccare il Pd, e ho ritirato il ricorso». E Veltroni? «Ah, Veltroni è bellissimo. Mi dice subito dopo l'elezione che mi devo dimettere perché "sono stato eletto coi voti della destra". E che vuol dire. In democrazia i voti so' voti. Soprattutto con il voto segreto. E bisogna rispettare il voto democraticamente espresso. Che significa che sono voti di destra? Valgono meno?» D'accordo, insistono gli altri deputati, però pure tu li hai messi in un bel casino. Perché non ti sei dimesso subito? Villari s'inalbera: «Anzitutto quel giorno, prima di essere eletto abbiamo fatto una riunione di gruppo, la prima dopo mesi con i vertici del partito. E io ho detto chiaro e tondo: "Non andiamo a votare, facciamo saltare anche questa che qui votano uno di noi e succede un casino". Ma ve l'ho detto. C'era qualcuno di noi che pensava fosse lui il prescelto dal centrodestra e quindi sono voluti andare per forza al voto». E dopo? Villari insiste: «Ma me l'ha detto Gentiloni. Appena eletto mi ha ordinato: "Adesso fai un discorsetto, dì che vuoi andare dai presidenti della Camera e della Repubblica e poi sospendi la seduta". Io gli ho risposto: "Paolo, ma che stai dicendo. Mica sono il presidente del consiglio incaricato". E lui è stato perentorio: "Fa' così. Altrimenti devi costituire l'ufficio di presidenza e Merlo (deputato Pd ndr) viene subito eletto vicepresidente". Ma che volete da me? Gentiloni è il responsabile del partito per le comunicazioni, quello era un ordine di partito e ho eseguito». Ma poi subito dopo hai visto Letta? «Questa è un'altra barzelletta. Sui giornali ho letto che era venuto Gianni Letta da me, aveva bussato alla porta, era entrato. C'erano pure le frasi sue e quelle mie. Tutto falso. Non è mai venuto da me. Quel giorno è venuto a San Macuto ed è andato all'ultimo piano, dove c'è l'ufficio di Rutelli». E D'Alema? Hai incontrato Velardi? «Altra cazzata. Stavo a Napoli, ero andato al circolo e mi ero messo la tuta. Stavo correndo sul lungomare quando incrocio Velardi, manco l'avevo riconosciuto, quello corre veloce. Cinque secondi, saluti e abbracci. Tutto qua. E vi pare un accordo politico». Con il Pd tutto finito? «Come dice Massimo Bordin (il direttore di Radio Radicale ndr) finirà come con Radek, il dissidente sovietico che venne fatto fuori dagli stalinisti che poi lo cancellarono dalle foto ufficiali. Solo che sbagliarono, tolsero la faccia e rimasero le mani. Tra qualche anno si parlerà delle mani di Villari». Riccà, ma quell'ombrello arcobaleno con cui t'hanno fotografato? Villari sorride: «Ho fregato un indiano che voleva vendermelo a 15 euro, io gli ho detto che ne avevo solo tre. Lui me ne ha chiesti otto, poi se ne è andato ma, alla fine, me l'ha venduto a tre. Ora non posso più lasciarlo perché è un ricordo di quel giorno». A Matrix sei andato forte? «Non lo so, non ne capisco di Auditel. Me l'ha detto pure Mentana. Ho detto solo la verità, forse in tv funziona più di ogni altra cosa». E Berlusconi? «Sono andato alla presentazione del libro di Vespa per vedere Berlusconi, nel senso che non l'avevo mai visto in faccia da vicino. Alla fine, qualcuno mi ha detto: "Vieni Riccà, te lo presento". Ma era tardi, dovevo venire da voi e sono andato via». S'è fatto tardi. Villari ha sonno, l'indomani mattina si vuole svegliare presto per andare a fare un po' di jogging. «Vado a riposare. Ciao uagliù, sempre forza Napoli».

Dai blog