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McCain, guerriero silenzioso

McCain

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Le prime parole di uno sconfitto (e anche di brutto) alle elezioni fanno pensare a quello che poteva succedere (e che non è successo) in Italia all'indomani delle ultime elezioni politiche. Ma arriva anche il giorno dopo. E allora tutto il mondo è paese. Perché il risveglio dopo la sbornia è peggio di un jet-lag. Così il guerriero del Vietanm con più medaglie del Grande Mogol ha preferito evitare dichiarazioni pubbliche e restare in famiglia, insieme con alcuni amici. Dal Biltmore Hotel di Phoenix, dove nella notte elettorale ha tenuto il suo ultimo discorso riconoscendo la sconfitta, si è trasferito nel suo ranch di Sedona in Arizona e lì è rimasto evitando interviste e apparizioni in pubblico. Più o meno mentre arrivano per Obama anche le congratulazioni di facciata del presidente uscente, che sembrano scorrere come nei titoli di coda di un film western. «Dopo il 20 gennaio io e Laura torneremo a casa in Texas con i preziosi ricordi dei momenti passati qui», ha osservato Bush, fornendo l'immagine del suo addio a Washington. Ovvero, il cow-boy stanco tornerà al suo ranch, cavalcando nel tramonto. E Condoleezza Rice? «Se posso parlare sul piano personale, come afro-americana sono specialmente orgogliosa di quanto è accaduto - ha detto il segretario di Stato uscente - perché questo è un paese che ha fatto un lungo cammino, in termini di guarire le proprie ferite e nel non fare della razza il fattore primario delle nostre vite». E, a proposito di donne, McCain ha salutato e ringraziato la candidata vicepresidente Sarah Palin, rientrata in Alaska.Che a sua volta, dopo un piantarello, ha dichiarato: «Non avrei mai immaginato nella vita di poter correre un giorno per la vicepresidenza degli Stati Uniti. Ero e resto una convinta ammiratrice di un eroe come il senatore McCain, ma l'America ha fatto un'altra scelta». Torniamo al «guerriero» diventato improvvisamente taciturno. È dura per John McCain, l'eroe di guerra, colui che nella vita è sempre riuscito a rialzarsi «per tornare a combattere, perché non bisogna mollare mai», a 72 anni e con una sconfitta di tali proporzioni alle spalle ha se non altro una certezza: nella vita non gli ricapiterà più di correre per la presidenza degli Stati Uniti. Lo aveva già fatto nel Duemila, ma era stato sconfitto nella fase delle primarie da George W. Bush. Ci ha riprovato in questo 2008, riuscendo ancora una volta a rialzarsi dal risultato-batosta ottenuto in apertura in Iowa e arrivando - nonostante gli iniziali problemi finanziari - a conquistare la nomination con largo anticipo rispetto al fronte democratico. Ieri poche parole, ha ammesso che la sconfitta è stata «significativa», ma nello stesso tempo ha detto loro che «in Senato ci sarà ora molto lavoro da fare». Poi ha un anelito di orgoglio: «Nessuno può pensare che la sconfitta sia un mio demerito». Facili (e comprensibili) le allusioni. Anche se dalla Fox alla Cnn, dal New York Times al Washington Post, in molti accusano il senatore dell'Arizona di «averci messo del suo» per perdere. Tre, sopra a tutte le altre, le ragioni della sconfitta.  

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