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Cgil, sindacato «schiavo» di un partito

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I fatti hanno clamorosamente smentito chi ha accusato nei giorni scorsi Berlusconi di avere attribuito arbitrariamente le resistenze e le ambiguità opposte dalla Cgil sulla strada di un accordo a ragioni politiche, più che sindacali. Cioè alla vecchia abitudine di questo sindacato di raccogliere e assecondare, diciamo così, le attese del maggiore partito della sinistra. Che una volta era il Pci,ora il Pd. Epifani, offesosi al pari di Veltroni e altri compagni per le presunte insinuazioni o provocazioni del presidente del Consiglio, si è spostato dalle posizioni intransigenti dopo che sono clamorosamente esplose nel Pd le divergenze sulla linea della resistenza ad oltranza all'intesa. E dopo che Veltroni, per effetto di quelle divergenze, ha avvertito l'opportunità di chiedere una svolta scrivendo una lettera a Berlusconi, sia pure nel contesto di valutazioni critiche e di attacchi al governo dettate da ovvie ragioni di propaganda politica. Solo allora Epifani,accontentandosi dei «chiarimenti» e delle «aggiunte» di cui ha parlato ieri a Palazzo Chigi, ha scoperto e riconosciuto alcune cose chiare invece dal primo momento: in particolare, i danni irreparabili di un eventuale fallimento della compagnia aerea e la stravagante copertura fornita da un sindacato come il suo alle rivendicazioni dei piloti. Dei quali tutto francamente si può dire ma non che fossero, o siano destinati a diventare, la categoria più debole e peggio pagata della compagnia. A consolazione di Epifani si può solo ricordare ch'egli è stato preceduto, sulla strada dell'allineamento al maggiore partito di sinistra, anche da un segretario della Cgil - se permette - più prestigioso di lui. Che era Luciano Lama, costretto nel 1984 da ragioni politiche, cioè dalla solidarietà di partito, a rifiutare l'accordo con il governo Craxi sul rallentamento della scala mobile per contenere l'inflazione. Al povero Lama, la cui moderazione gli aveva procurato non pochi dispiaceri e fastidi sulle piazze, toccò anche l'umiliazione di partecipare all'iniziativa più autolestionistica della sinistra e del sindacato voluta da Berlinguer: il referendum contro quell'accordo. Esso fu perso clamorosamente da chi lo aveva promosso e vinto dal governo dell'epoca, che aveva coraggiosamente accettato la sfida mettendo in gioco la propria sopravvivenza. Questa volta, bontà sua, il partito non ha chiesto tanto al sindacato. Si è fermato, e lo ha fermato, sull'orlo dell'abisso reclamando goffamente le scuse e la riconoscenza di un governo alla cui fermezza invece si deve il recupero della ragione, sia pure al novantesimo minuto della partita. Il problema della Cgil era e rimane sempre lo stesso: l'emancipazione, finalmente, dal partito che è stato sempre il suo riferimento.  

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