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A mio figlio ho detto la verità». Le mani fra i capelli ...

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Prima c'erano le regole. La selezione. Nessuno poteva mischiare le carte. Si veniva assunti dopo prove durissime. Era orgoglio e ottimo stipendio. Non bisognava soltanto essere belle, occorreva saper comunicare, stare nel proprio ruolo con responsabilità. Studiare. Vent'anni fa, l'inizio della fine: posti per tutti. A prescindere. Un circo per il quale l'importante non è stato più, e non è, sapere, ma infilarsi. Belli, brutti, ignoranti, colti, gente che non sa nemmeno di lavorare per una compagnia aerea. Una sistemazione tira l'altra fino a oggi. Che l'unica soluzione sarebbe fare tabula rasa e ripartire da zero. Sradicando l'esubero senza fine coltivato col concime del «chi se ne frega tanto qualcuno che paga si trova. Costruito con l'avallo dei governi, fino a produrre un girone incapace di mantenere il mostro che ha prodotto. Con il risultato che per scegliere il film da trasmettere su un aereo si impiegano cinque dirigenti e altrettanti dipendenti senza rango mentre i comandanti partono con i soldi in tasca per fare gasolio negli aeroporti stranieri dove la linea di credito s'è esaurita». Le facce bianche, i cartellini al petto, la fuga dalle telecamere delle tv che sono venute a chiedere come va. «E come vuoi che vada, non posso parlare, non voglio parlare». La fuga, il giorno dopo la risata che ha fatto il giro del mondo alla notizia della rottura delle trattative per l'ingresso di Cai, si ferma nello sguardo smarrito di una precaria di 21 anni. Al suo primo lavoro. Bella, anche lei. «Alla fine del mese me ne andrò. Non ho capito perché hanno sfasciato tutto. Io so che lavorare è meglio che non lavorare». Al cuore della giovane hostess, con gli occhi verdi velati di pianto, (è solo raffreddore, dice) non arriva alcuna spiegazione plausibile. Per lei Alitalia è. La divisa, la cortesia. Quel tocco di costruita ingenuità grazie al quale può favorire un passeggero che farfuglia di avere un ginocchio gonfio per evitare la fila. Il contatto col mondo in movimento. Che viaggia e porta ricchezza, umana, di intrigante fantasia. Lei è l'anello debole di una catena al cui opposto ci sono i piloti, che «non cederanno mai». In mezzo la "famiglia Alitalia". La squadra silenziosa, che conosce perfettamente situazioni e responsabilità. Che ancora s'aspetta il miracolo. «Perché non può finire così. È un'azienda, la trattino come tale. Dieci anni in Alitalia, dieci anni, il pezzo di vita che mi è più caro. Un tempo cominciato difficile». Le parole dello stuard scivolano veloci dopo nessuna esitazione. Il tempo di raggiungere un angolo riparato per spiegare che è un'angoscia vedere l'orgoglio nazionale trasformarsi in una catastrofe senza sbocco. Ho visto i sindacalisti in tv. Quelli non sono me né altri mille come me. Al tavolo delle consultazioni non c'era chi lavora, chi sa come funziona. Ci stavano e ci stanno quelli che, sono sicuro, si son già venduti il nostro, un'azienda che non ha un solo motivo per chiudere, che si è ritagliata un mercato sull'eccellenza del servizio, dagli ingegneri in giù, decapitata da scelte incomprensibili. Lontane, avulse». L'altra Alitalia parla piano. Non chiede permessi sindacali, anzi condanna il cattivo esempio «di chi s'è gestito troppo bene i fatti suoi». Spera, come prigioniera di un'allucinazione, che basti continuare a lavorare perché qualcuno faccia il miracolo. La tensione è sui volti contratti e nei capannelli guardinghi. L'altra Alitalia, forse l'unica, non ride. Anna Fiorino [email protected]

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