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Dario Caselli Una guerra commerciale con la Cina. ...

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È l'ultimo regalo del governo Prodi. Un dono inatteso e sgradito che troverà a Palazzo Chigi chi vincerà le elezioni di aprile. Il tutto legato alla vicenda, che ormai da alcuni anni riempie le cronache locali e nazionali, dello stabilimento di Tito in provincia di Potenza per la lavorazione dell'oro. Una fabbrica che sarebbe dovuta nascere attraverso la partecipazione imprenditoriale cinese e soprattutto grazie al contributo dello Stato italiano, creando così un centro d'eccellenza orafo nel potentino. Ma fino a oggi quell'impianto non è mai entrato in funzione anche se negli anni ha divorato più di 13 milioni di euro ottenuti in base ai finanziamenti previsti dalla legge 219/81, quella - tanto per capirci - della ricostruzione post-terremoto del 1980. Questo fino alla decisione nel 2006 del governo Prodi e del ministro dello Sviluppo Economico Pierluigi Bersani di chiedere la restituzione delle somme finora concesse. Una richiesta recapitata alla società «Sinoro Srl», nata però solo nel 2001 in base da un accordo bilaterale tra il governo italiano e quello cinese, e non piuttosto alla società che effettivamente aveva beneficiato del finanziamento iniziale. In questa vicenda infatti di aziende ce ne sono più d'una che ha goduto dei finanziamenti statali; nell'arco di questi due decenni sono almeno tre quelle che si sono succedute, tutte nate dalla compartecipazione cinese. Dall'originaria «Centro Orafo» alla «Cripo» per poi finire alla «Orop». Tutte fallite con tanto di libri contabili in tribunale ed indagini coordinate dal pm Woodcock. Ma il governo Prodi ha deciso che a pagare per tutti dovrà essere solo la «Sinoro Srl», che nel 2005 ha anche investito 6 milioni di euro in macchinari per far partire la fabbrica assumendo 40 persone. Una società che all'atto di nascita decise pure di accollarsi tutti i debiti pregressi delle aziende, versando anche ben 2.5 milioni di euro in più rispetto agli accordi stipulati nel 2001 tra governo italiano e cinese. Ma a Palazzo Chigi non vogliono sentire ragioni e chiedono la restituzione dei finanziamenti concessi. Da qui la risposta a dir poco stizzita delle autorità cinesi che pochi giorni fa hanno scritto al ministro degli Esteri, dello Sviluppo Economico, e dell'Economia. Una lettera dell'Ambasciata cinese che chi ha avuto modo di leggerla definisce dura, in cui si considera «gravissima» la decisione del governo italiano di revocare il finanziamento. Una revoca avvenuta, spiegano le autorità cinesi, senza aprire un tavolo di confronto con l'Ambasciata cinese e senza nemmeno comunicare l'intenzione di adottare un tale provvedimento. Decisione, scrivono i cinesi, «che ha causato perdite incredibili oltre che alla società anche ai lavoratori (italiani, ndr) che stanno per essere messi in mobilità e ha danneggiato e danneggerà i rapporti economici italo-cinesi», e definendo infine «sconcertante» l'atteggiamento del governo italiano che finora ha ignorato la richiesta di sospensione della revoca del finanziamento. Richiesta che proprio il responsabile economico dell'Ambasciata cinese aveva reiterato formalmente per lettera ben due volte a gennaio al consigliere diplomatico di Bersani. Dal governo italiano però nessuna marcia indietro, anzi alla «Sinoro Srl» è già arrivato il pignoramento dello stabilimento di Tito con una base d'asta di vendita di circa 700mila euro, pur in presenza di ricorsi presentati dai cinesi. Le nostre autorità hanno deciso di tirare dritto per combattere, dicono, gli sprechi dei fondi concessi a pioggia. Sarà, ma dando uno sguardo alla cifra di vendita e ai fondi finora concessi, 13 milioni di euro, e soprattutto agli investimenti diretti fatti dalla «Sinoro Srl», 6 milioni di euro, qualche dubbio viene. Chissà che anche stavolta Palazzo Chigi non abbiamo fatto bene i conti. Non sarebbe la prima volta.

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