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Walter come Silvio parla ai «poveri del primo mondo»

Veltroni

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Così, in molti temevano che Walterissimo si fosse portato da casa un documentario in 16mm della Settimana Incom, l'introvabile figurina di Boranga della collezione Panini '64-'65, un mangiadischi Phonola verde pisello con dentro Joan Baez in vibrato su «We shall overcome». E invece. Reprimendo a fatica la nostalgia canaglia per la fascia di sindaco appena dismessa, e canticchiando dentro sè «Quanto sei bella Roma» come neppure la Magnani, Veltroni è andato oltre. Perché questa è la campagna elettorale dei sacrifici, in cui si parla a chi ha le tasche vuote, e dove l'antagonista non è il nemico, ma il sodale per eliminare subito partitini e congreghe fantasmatiche, fastidiose come blatte. Con il Cavaliere un'«entente cordiale» prima del voto, ai cittadini annunci di sostegni finanziari, ai nani del Palazzo mazzate: e sempre con il sorriso dell'uomo che ha sacrificato «il progetto di fare le cose che piace a me, e non dico in Africa» (questo sì che è uno scoop: dove, allora?) per accollarsi l'onere di risanare un Paese più bisognoso di cure delle tribù del dottor Schweitzer. Guai ai piccoli e ai furbi: sì a Di Pietro, ma i socialisti stiano attenti, i radicali riflettano. Perché, con questa «coriandolizzazione» della politica, «è ora di farla finita», giura lui: ecco il buonista che tira fuori la Colt, magari con il silenziatore, e spara, come in un western a rovescio. Con Berlusconi, invece, Veltroni ha concordato «un cambio di tono», una «rottura del linguaggio per uscire da questi 15 anni di politica», un coro gospel per invocare l'unità degli italiani, neopoveri del Primo Mondo. Non come il Malawi, certo. Il messaggio è l'alleanza trasversale dei condottieri dei due supergruppi, almeno in chiave mediatica. A Porta a porta il gioco funziona per un'ora, finché l'infingardo Vespa non informa l'ospite che al Tg1 Silvio ha ricordato che nell'ipotesi governativa del Pd ricompare il 70 per cento del team della gestione Prodi. Lì l'Obama bianco traballa, balbetta, trasecola cercando di non darlo a vedere. Il conduttore, perfido, lo scimmiotta, cerca di fargli pronunciare quel «ma anche» che l'altro, con un capolavoro dialettico, aveva evitato sino a quel momento. «Manterrò questo tono di voce» (pacato e sereno, ovvio), fino al voto, promette il candidato premier, perché l'antiberlusconismo sarebbe un autogol degno del Niccolai di buona memoria, adesso. Più tardi, però, cederà alla tentazione di capitalizzare la macchietta crozziana: «Il mio "ma anche" è un'alternativa al senza se e senza ma», perché questo dovrà essere il governo della concordia nazionale, comunque vada, e non delle conventicole parassitarie. Però un tic lessicale Veltroni lo sfoggia, incautamente: ed è l'intercalare del «guardi» (o anche la variante «guarda», a seconda dell'intimità con l'interlocutore) che vorrebbe annunciare una visione progettuale, meglio se alla Martin Luther King, e invece è solo l'anticamera di un ragionamento in divenire, forse di un imbarazzo. Dal repertorio del suo kulturmarket, Walterissimo tira fuori, alla rinfusa, il finale di «Otto e mezzo» parlando di tasse, il sipario cui si aggrappava Francesca Bertini per lodare l'uscita di scena di Prodi, lo spot della Scavolini per il governo «più amato dagli italiani». Gli studiosi di prossemica notano il gesto rivelatore con cui il Nostro ricorda che i salari sono fermi dal 2000: allarga le braccia e apre le mani ad arco, come se reggesse un cocomero. O misurasse il mazzo che sono fatti in troppi, fino ad oggi.

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