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Il campo delle sevizie è ancora lì

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Nellebidonville fra Salaria e Flaminia si riparano i buchi nelle cerate che ricoprono i tetti di quelle stamberghe, c'è chi esce dal campo tirandosi dietro dei decrepiti e ondeggianti carrelli per la spesa. I panni lasciati a stendere dal giorno prima rimangono appesi fra un albero e l'altro anche se la pioggia li sta letteralmente inzuppando. Fango, sporcizia e rottami fanno da cornice a queste immagini, accompagnate dalla visione delle acque verdi e malate dei due fiumi. All'imbocco dell'oscuro e sporco vialetto che conduce alla stazione di Tor di Quinto, qualcuno ha lasciato un mazzo di fiori bianchi in ricordo di Giovanna Reggiani che in quel luogo ha conosciuto la violenza più spietata. Quei fiori sono l'unica nota di bellezza in mezzo a ferri arrugginiti, resti di frigoriferi, bottiglie di birra e immondizia.Tutto normale quindi. «Non sappiamo niente. Quello è pazzo», questo il commento che si ottiene inizialmente dagli abitanti delle baraccopoli quando si chiede qualcosa di Romulus Nicolae Mailat, il romeno che ha violentato a morte Giovanna Reggiani. La comunità dei baraccati e dei rom rimane chiusa, il clan protegge anche se passivo, non parlando. È l'unico gioco possibile per sopravvivere in realtà al di fuori delle regole. Per questo sorprende ancora che una madre rom abbia potuto testimoniare sulla colpevolezza del figlio. Sorprende che ci siano state testimonianze all'interno della bidonville dove l'autore dello stupro viveva. Forse il clan è più importante e perché sopravviva, si offre il figlio. Poi qualcuno prende coraggio e pronuncia qualche altra parola: «Quella sera Nicolae era andato a bere con un suo amico, un romeno della Moldavia». Ne parlano come di un ragazzo, arrivato nel campo da oltre due mesi e mezzo, che non aveva mai dato problemi e faceva il manovale. Parla anche una donna romena del campo, ma per lanciare un appello per suo figlio di 16 anni, per far capire che è cosa diversa dallo stupratore: «I poliziotti lo hanno portato via e non so più nulla. Si chiama Negru George Bogdan. Non è un Mailat, non c'entra nulla con quello». C'è pure chi ci tiene a fare dei distinguo. «Quelli dei campi nomadi non sono come noi - dice Alfredo, da dieci anni impiegato in una delle aziende di via Camposampiero - Quelli che vedete così poveri, a chiedere l'elemosina, gli zingari, possono essere proprietari di un intero piano di un palazzo al nostro paese. Noi invece che veniamo qui a lavorare e a spaccarci la schiena. Loro rubano e uccidono». Tutto comunque è tornato alla normalità, dalla Salaria alla Flaminia, con quelle prostitute poco più che adolescenti a lavoro sotto la pioggia, con parcheggi e piazzole che esibiscono raccolte di preservativi usati, auto e furgoni rubati, depredati di tutto ciò che è riciclabile. Stanno parcheggiati proprio accanto a quegli ingressi che portano alle casupole in lamiera e truciolato affondate nel fango. Stanno meglio le stamberghe accanto ai piloni del ponte nuovo della Salaria, sopra l'Aniene, oppure, lì vicino, dentro un vecchio ristorante in abbandono. Simbolo di tutta questa situazione di profondo degrado, il vecchio cippo in pietra del ponte mussoliniano della Salaria. Giace a terra. Una scritta recita: «Km 67 dal Campidoglio». Eppure, a ben vedere, la maggiore collina di Roma sembra essere molto più distante.

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