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Ferrero non firma il documento È già il terzo caso

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L'ultimo colpo basso al premier è arrivato ieri dal ministro per la Solidarietà sociale Paolo Ferrero (Prc) che ha rifiutato di firmare il Dpef, Documento di programmazione economica e finanziaria che traccia le linee della politica economica su cui il governo lavorerà nella prossima legislatura. Ma il clima scotta anche sul fronte del rifinanziamento della missione in Afhanistan e perfino delle liberalizzazioni, con Rifondazione Comunista che nei giorni scorsi si è detta, a proposito della rivolta dei taxi, «dalla parte dei lavoratori». Il Dpef, per Ferrero, «non garantisce che l'azione di risanamento non si traduca in un taglio della spesa sociale su settori importanti, a partire dalla sanità e dalle pensioni». Da qui la decisione di non siglare il testo dell'esecutivo e rinviare la discussione alla Finanziaria per coinvolgere le parti sociali e garantire equità. Decisione condivisa anche dal segretario del Prc, Franco Giordano, che ha motivato così la decisione: «Rifondazione comunista ha espresso un dissenso su alcuni capitoli del Dpef, in particolare per quanto riguarda il rischio che il risanamento pesi sulla spesa sociale, su pensioni e sanità». La via maestra, per Giordano, rimane quella già intrapresa dalla manovra bis, nel merito e anche nel metodo. Ovvero «l'inasprimento della lotta all'evasione e all'elusione fiscale, l'intaccamento delle rendite e delle sacche di privilegio. Nonché il confronto con le parti sociali». Evidentemente è stato proprio per cercare di capire le ragioni di Prc, che subito dopo il Consiglio dei Ministri si è svolto, a Palazzo Chigi, un incontro tra il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Enrico Letta, il sottosegretario all'Economia con delega per la finanziaria, Nicola Sartor, e lo stesso Ferrero. Insomma, Dpef alla mano, Prodi ieri ha fatto i conti con un ministro dissidente e un partito di maggioranza che ancora una volta gli ha voltato le spalle, puntando il dito sulla mancanza di un «percorso partecipativo» nella definizione del testo, frutto «del troppo poco tempo». Ma sulla tavola della discordia il menu è ricco. In primo luogo c'è il rifinanziamento della missione in Afghanistan. Problema posto dalle formazioni della sinistra radicale (Prc, Pdci e Verdi), che da aprile vestono i panni di forza di governo e rappresentanti dei settori pacifisti e «no global». Sul fronte delle missioni militari all'estero, attualmente all'esame della Camera, Prc, Pdci e Verdi chiedono, dopo aver preso atto positivamente dell'annunciato ritiro entro autunno dall'Iraq, che anche per l'Afghanistan si dia un segnale di «discontinuità» rispetto al passato. Proprio ieri il ministro della Difesa Arturo Parisi ha incontrato i capigruppo di Rifondazione comunista al Senato e alla Camera, Russo Spena e Migliore, e quello dei deputati verdi Bonelli. I tre esponenti della sinistra alternativa hanno insistito affinché il governo consideri da subito il superamento della missione Enduring Freedom che «non è una missione Nato né tantomeno dell'Onu». Pertanto «nessun vincolo internazionale impedisce all'Italia di ritirarsi da quella missione». Ma un eventuale ritiro da Enduring Freedom porrebbe senza dubbio dei problemi con gli alleati della Nato e, in particolare, con gli Usa. Quindi Prodi è chiamato a sciogliere una matassa a dir poco intricata. Un pasticcio da cui il premier sta cercando di venir fuori a suon di incontri che fino ad ora hanno avuto scarsi risultati. Sempre ieri infatti, Prodi ha incontrato a Palazzo Chigi lo stesso Parisi e il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, per riuscire a trovare una soluzione che rassicuri contemporaneamente gli alleati internazionali e quelli di governo.

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