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Padre Georg e quel consiglio mai svelato a Papa Benedetto XVI sulle dimissioni

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Padre Georg Ganswein è tornato in Italia ad un anno dalla morte di Papa Benedetto XVI ed ha passato l’Epifania in una parrocchia di Bergamo. L’ex segretario di Joseph Ratzinger racconta così il precedente Pontefice: “Era un uomo la cui vocazione era quella del professore universitario e non la carriera ecclesiastica, tanto che non era nato per esercitare il potere. Ma una volta arrivato al Soglio, affrontando questioni come la pedofilia, aveva un forte senso di responsabilità. Già da cardinale aveva visto che il grosso problema della Chiesa non sono le persecuzioni o gli attacchi da fuori ma la sporcizia che è prodotta all’interno. Questo gli costava molto. Non l’abbiamo mai visto piangere perché era molto controllato e dominava le emozioni ma soffriva”.

 

 

Il monsignore svela anche i colloqui a proposito delle dimissioni di Benedetto XVI, con la reazione alla notizia data in privato: “Fu un colpo durissimo. Gli dissi ‘Santo Padre, non può farlo’. Ma mi spiegò che aveva lottato e aveva sofferto, ma non aveva più le forze fisiche e psichiche per esercitare quella responsabilità. Non c’entrano le lobby gay, lo Ior, la pedofilia, Vatileaks. Non è fuggito, non ha detto ‘ne ho le tasche piene’, ma ha rinunciato per amore di Dio e della Chiesa. Aveva detto fin dall’inizio ‘il mio pontificato sarà breve’ per l’età, e dopo la rinuncia era convinto che non avrebbe vissuto più di un anno”.

 

 

Ganswein, che preferisce non parlare di Papa Francesco che lo ha “cacciato” facendolo tornare in Germania, si sofferma sui dissidi tra Ratzinger e Papa Giovanni Paolo II: “Parlavano almeno una volta la settimana, c’erano differenze sugli incontri di Assisi, le canonizzazioni e altre questioni, ma discutendo le superavano. Il pontificato di Giovanni Paolo senza Ratzinger non sarebbe stato lo stesso, per lui è stato un amico fidato e lo ha riconosciuto pubblicamente”. “Sento la sua onnipotenza spirituale ma la sua presenza fisica mi manca molto”, la frase con cui Ganswein ha concluso l’incontro a Bergamo, riferito dal Corriere della Sera.

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