
25 aprile, il film già visto e il solito errore della sinistra

Diciamo la verità: non se ne può più. Da quando la destra è al governo, ogni 25 aprile è diventato una crociata. Contro Giorgia Meloni e i suoi ministri si innesca la guerra preventiva fatta di veleni e accuse, illazioni e fantomatici test di antifascismo. A dispetto delle parole, chiare chiarissime, e del totale e doveroso ossequio alle celebrazioni istituzionali, si levano le solite polemiche. Quanto si può ritenere sincero, questo o quello, nel festeggiare la Liberazione? Quel tale crede davvero a ciò che dice con tono solenne o il suo agire è dettato dal solo scopo di distogliere da sé le accuse di fascismo? E poi la parata all’Altare della Patria, che sceneggiata: a costoro della Liberazione non importa nulla. A sentire le Schlein, i Fratoianni e i Landini, le parole non bastano mai.
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Per Giorgia Meloni sarà il terzo anniversario da presidente del Consiglio, e in questi anni la premier non ha mai mancato di celebrare la Liberazione con parole e scritti (basti ricordare la lettera inviata al Corriere della sera nel 2023) tesi a ribadire tre cardini del suo pensiero: la condanna della dittatura fascista e delle sue complicità con il nazismo, l’incompatibilità della destra con qualsiasi nostalgia del fascismo, la celebrazione del 25 aprile che pose le basi per il ritorno della democrazia e della libertà. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire: come un film già visto, la sinistra ricade nell’errore di considerare quella di oggi la festa di una parte soltanto. Così si scagliano le solite critiche strumentali, politicamente costruite ad arte e in modo ciclico, al fine di delegittimare l’avversario, spaccando il Paese. Perché il 25 aprile dovrebbe essere esattamente come il 2 giugno: la festa di ogni cittadino italiano. Senza neanche la necessità di grandi fanfare: le frecce tricolori, la corona di fiori al Milite ignoto, l’inno nazionale. Punto. Invece Landini, il segretario della Cgil, parla di un «giorno di lotta», tale è la voglia di combattere non si sa bene contro chi o cosa. L’anno scorso addirittura qualche solone della sinistra si indignò per la durata, «venti minuti», del rito all’Altare della Patria, la premier doveva trattenersi almeno un’oretta per essere presa sul serio. C’è da immaginare che anche nella giornata odierna Meloni si tratterrà per il tempo che occorre, con la solennità e il rispetto che si devono a chi perse la vita per donare la democrazia e la libertà a tutti noi. Qualcuno tornerà a chiederle insistentemente di definirsi «antifascista» scandendo bene ogni sillaba, an-ti-fa-sci-sta, perché per costoro la professione di antifascismo è come un atto di fede, e non soltanto un pezzo della storia. Non basta infatti dirsi antifascisti o anticomunisti per essere dei sinceri democratici. La democrazia è un insieme ben più grande, oggi preservato meglio e con maggiore coerenza da chi, oltre che celebrare, com’è doveroso, la fine della dittatura, punta anche a ritrovare uno spirito di vera concordia nazionale che consenta a tutti noi di dirci italiani, amanti della democrazia e della libertà.
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