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Ex Ilva, il suo futuro dipende da chi vogliamo essere

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Gianluigi Paragone
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L’Ilva di Taranto è ormai un groviglio di situazioni, molte delle quali hanno o sembrano avere le loro ragioni. Non ha torto chi non crede più nella capacità produttiva dell’Ilva o chi invece considera fondamentale rilanciarla perché non possiamo fare a meno di una acciaieria italiana. Non ha torto chi maledice l’Ilva «che ci ha distrutto la vita» e anche chi teme che «senza l’Ilva qui non c’è più lavoro». Da quel 2 agosto 2012 quando la procura avviò una inchiesta dalla portata devastante, l’affaire Ilva ci obbliga a interrogarci su due aspetti: com’è stato possibile non pensare che produzione e rispetto della salute non potessero procedere accoppiati? E, soprattutto, a che serve investire su pezzi fondamentali di una architettura industriale nazionale quando la classe dirigente non ha chiaro il ruolo di industria nazionale? Non basta dire «Made in Italy» se poi svendiamo i gioielli di famiglia, se facciamo cassa sui campioni e se non curiamo i pezzi portanti della macchina «Made in Italy». Ilva era la più importante acciaieria d’Europa, produceva acciaio di grande qualità e teneva in piedi importanti aziende italiane. Era però il tempo dell’interesse nazionale.

 

 

C’era un sottinteso senso di orgoglio per ciò che sapevamo fare e quindi potevamo essere nel mondo. Ora è tutto un affannarsi a trovare il fondo che ti salva all’ultimo perché il governo non può o il socio cui consegnarti. La scelta di Arcelor Mittal seguì questa logica: cercare chi fosse disposto a salvare il governo più che Ilva; ma era chiaro che l’imprenditore franco indiano volesse indebolire il suo competitor, dal momento che l’offerta non poggiava su un vero e proprio rilancio industriale.
In questa tarantella di j’accuse e giustificazioni finalmente l’equivoco si scioglie e Mittal si rivela per quello che è, cioé un imprenditore che mira a cannibalizzare il mercato mondiale dell’acciaio e Ilva gli serviva come importante hotspot di ulteriore connessione in Europa. Ma resta un cannibale che mentre guarda con distacco Taranto e Roma, annuncia che in India costruirà il più grande impianto al mondo.

 

 

Quindi, che facciamo adesso? Uso una provocazione di moda: Ilva si può salvare se abbiamo una idea di sovranismo industriale. Esco dalla provocazione: vale la pena investire nell’acciaio se la classe dirigente non solo non fa pagare il prezzo ai cittadini in termini di salute e di spreco di denaro, ma soprattutto se ha chiaro un disegno industriale che sta dentro l’interesse nazionale, se usciamo dall’ipnosi eurocratica (alimentata dai Draghi e da tutte le larghe intese...) per cui dobbiamo fare cassa perché il debito pubblico, l’Europa, il Pnrr, blablabla. Crediamo ancora che esista un sistema di imprese fatto di campioni (magari in difficoltà ma che restano campioni) oppure ci arrendiamo alla rappresentazione plastificata di una Confindustria guidata (ancora per poco fortunatamente) da un imprenditore Carneade? Ilva non va salvata tanto per salvarla ma solo se e perché serve all’interesse nazionale.

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