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La sinistra diventa una tassa da pagare con le critiche senza senso a Meloni

Alessandro Usai
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Taglio anch’io, no tu no. Sembra la canzone dedicata al premier Meloni, colpevole di aver messo sul piatto 3 miliardi di euro per il taglio delle tasse sul lavoro. Uno scandalo per sinistra e sindacati. Valli a capire. Devono avere un contenzioso aperto con le tasse tanto da volerle aumentare invece che ridurre. Un innamoramento per le tasse francamente non corrisposto dagli italiani che pretendono giustamente da anni una minore pressione fiscale. Ma a sinistra se la raccontano in modo diverso. Ecco allora che la contro narrazione si sposta sul precariato e sulle diseguaglianze. La segretaria del Pd, Elly Schlein, arriva addirittura a dire all’evento Cgil a Firenze che il provvedimento del governo rende i lavoratori più ricattabili. Boh, sarà forse l’aria della Leopolda a confondere le idee. Lei che in modo sprezzante ha tenuto a precisare che era lì per la prima volta. Chissà perché tutto questo astio verso la Leopolda che invece rappresenta da anni un luogo di incontro e confronto trasversale. Meno male che libertà è partecipazione. Forse un principio che a sinistra vale solo a targhe alterne come per lo smog.

 

 

Quello che colpisce è la critica non sul merito del taglio al cuneo fiscale, peraltro sempre auspicato da tutti anche in campagna elettorale, ma sulla tempistica. Sbagliato fare una misura per i lavoratori nel giorno della festa del lavoro. Non si capisce francamente il motivo di questa posizione. Perché non si possono aiutare i lavoratori il primo maggio? Mistero. Sarebbe stato più logico criticare l’ammontare del decreto. Forse si sarebbero potute tagliare di più e meglio le tasse, o magari prevedere questo impatto non solo fino a fine anno. Posizioni legittime che aprono un dibattito. Si può discutere se questa misura sia epocale come sostiene il premier oppure un taglietto come rilancia Matteo Renzi, che per i suoi 80 euro in più in busta paga aveva previsto 10 miliardi, stravincendo poi le elezioni europee del 2014. Ma quella era un’altra storia e bisognerebbe poi analizzare se davvero, come sostengono i detrattori dell’ex premier, quei famosi 80 euro furono successivamente ristornati in busta paga. Il punto vero resta il taglio delle tasse. Meloni lo sta facendo, provando a mettere fino a 100 euro in busta paga. Poco, tanto? Giusto discuterne. Ma se si litiga sul principio si sconfina nella disonestà intellettuale.

 

 

Siamo in una fase complicata e ipotizzare patrimoniali, come fa la sinistra, o auspicare un aumento delle imposte sulle rendite è lunare. Ma lo sanno che gli interessi sui titoli di Stato vengono tassati, per i contribuenti individuali, con un’aliquota del 12,5 per cento, privilegiata rispetto alla tassazione applicata agli altri titoli emessi sui mercati finanziari? Non sarebbe sano e tanto meno risolutivo cambiare questo meccanismo, soprattutto ora che il nostro debito rischia di essere sempre più sotto pressione sui mercati. Dovrebbero tornare a studiare l’economista premio Nobel Milton Friedman, fondatore del pensiero monetarista: «L’inflazione è una forma di tassazione che può venire imposta senza legislazione». È esattamente quello che sta accadendo oggi. Stiamo tutti pagando una tassa dovuta alla corsa dei prezzi al consumo. E le banche centrali, con i continui rialzi dei tassi di interesse, non riescono a spegnere questa fiammata, rischiando di alimentare una spirale negativa per le nostre tasche. E in Italia siamo capaci di litigare con chi le tasse vorrebbe provare ad abbassarle. Certe volte è la sinistra a diventare una tassa con cui dover fare i conti.

 

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