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Il Pd per consolarsi non fa autocritica ma delegittima il successo di Meloni

Riccardo Mazzoni
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Dopo una settimana dal voto, i vertici del Pd non smettono di diffondere un messaggio inutilmente autoconsolatorio e soprattutto distorto per un corretto confronto democratico, perché mette sostanzialmente in dubbio la piena legittimazione elettorale della coalizione che ha vinto. Il ragionamento è questo: il centrodestra si è coalizzato e ha fatto manbassa di collegi uninominali ottenendo così la maggioranza dei seggi in Parlamento. A essa non corrisponde però una maggioranza nel Paese, e questo accresce il dovere di organizzare un'opposizione dura e intransigente.

Ognuno ha ovviamente diritto di fare l'opposizione che ritiene, anche se in mezzo a una crisi così drammatica dovrebbe prevalere in tutti il senso di responsabilità, ma i precedenti non inducono all'ottimismo: la sinistra infatti ha sempre di fatto boicottato ogni forma di dialogo costruttivo quando a Palazzo Chigi c'era Berlusconi, e non farà sicuramente sconti nemmeno alla prossima premier. Ma sul risultato del 25 settembre non possono essere gettate ombre strumentali: se per legittimare una vittoria elettorale fosse necessario il consenso della maggioranza assoluta degli aventi diritto al voto, tutti i governi della seconda Repubblica dovrebbero infatti andrebbero considerati anatre zoppe. Basta ricordare la vittoria più significativa del centrosinistra, quella del 1996, quando i votanti furono 40 milioni e mezzo e la coalizione di Prodi vinse ottenendo alla Camera circa 16 milioni di voti, con il 44,9 per cento nel maggioritario a fronte del 51,3% del centrodestra, e il distacco fu ancora più ampio nel proporzionale. Prodi vinse solo perché la Lega di Bossi corse divisa dal Polo delle libertà e perché la Fiamma Tricolore di Pino Rauti fece perdere un numero decisivo di seggi al centrodestra nei collegi. Ma nessuno si sognò di confutare il diritto di Prodi a formare un governo, nonostante fosse non solo minoranza nel Paese, ma minoranza anche rispetto agli avversari usciti sconfitti. Nel 2006, poi, l'Unione vinse alla Camera per 24mila voti ma perse al Senato, anche se grazie agli errori del centrodestra nella presentazione delle liste nella circoscrizione estero alla fine riuscì ad avere un seggio in più. Anche questa, piaccia o meno, è democrazia.

Ma, più in generale, in tutti i grandi Paesi occidentali, a partire dagli Stati Uniti, le maggioranze parlamentari vengono scelte da una minoranza di elettori, con un tasso di astensionismo da sempre più alto del nostro. Su questo versante, il dato del 25 settembre rappresenta oggettivamente un forte campanello d'allarme, perché i numeri dicono che un esercito enorme di italiani ha disertatole urne. Un evento senza precedenti che ha fatto segnare una flessione del 10% rispetto al 2018. A fronte di 46 milioni di aventi diritto, 19 milioni si sono chiamati fuori o non andando al seggio o non esprimendosi e, a cascata, tenuto conto della diminuzione dei votanti, la consistenza in termini assoluti dei consensi del centrodestra, che nella vittoria del 2008 fu di 19 milioni, oggi è scesa a 12.

È stato anche osservato che i voti degli sconfitti sono stati di circa due milioni superiori a quelli dei vincitori, ma in politica non si possono sommare le mele con le pere: se Letta non è riuscito a mettere insieme il suo campo largo è perché gli elettori di Calenda non erano compatibili con quelli di Conte e di Fratoianni, e se si fossero presentati insieme quei voti avrebbero preso altre destinazioni. Che ci sia in atto da tempo una patologia nella rappresentatività dei partiti rispetto a classi e corpi sociali è indubbio, ma questo non può certo inficiare né attenuare il valore di un successo elettorale conquistato grazie a un coerente percorso politico e a una leader che nell'arco di una legislatura è riuscita a sestuplicare i consensi, declinando al meglio una legge elettorale peraltro scritta dal Pd.

Ma se c'è una crisi determinata dallo scollamento fra politica e Paese reale, allora è giunto il momento di riformare il sistema in profondità, e il presidenzialismo potrebbe essere il ponte ideale per riunire le due sponde ora lontane. Su questo forse dovrebbero riflettere le sinistre, invece di cavillare sulla incontestabile vittoria del centrodestra. 

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