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Pd, inevitabile fallimento. Lettera a un leader di partito mai nato

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Riccardo Mazzoni
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Prima ancora dell'esito elettorale, il congresso del Pd è già di fatto iniziato e c'è aria di resa dei conti perché, secondo tradizione, da quelle parti un segretario perdente ci rimette sempre lo scalpo.

Accadde a Veltroni nel 2008, nonostante il risultato più che onorevole della sua vocazione maggioritaria, ed è sempre stato così, e ora che i sondaggi sembrano non dare scampo, la stessa sorte non potrà che toccare a Letta. Il quale, del resto, dalle dimissioni del governo in poi le ha sbagliate tutte: ha preso in prestito l'Agenda Draghi, ma siccome metà del suo partito non l'ha mai condivisa, poi ha siglato un patto di opposto tenore con la sinistra radicale - mascherandolo da tecnicismo elettorale - e tenendo fuori, alla fine, proprio i draghiani ortodossi Calenda e Renzi.

In un colpo solo, insomma, è rimasto in mezzo al guado fra due strategie che insieme non potevano stare in piedi: il fronte repubblicano per scongiurare l'avvento di un fantomatico regime e l'opzione riformista, col suo corollario di realismo incompatibile con le crociate ideologiche. Richiamato da Parigi quasi come un papa straniero, Letta ha dunque fallito la prova della leadership, ed è il fallimento di un leader mai nato, ultimo segretario replicante di un partito mai veramente nato. O meglio, nato in laboratorio da una fusione a freddo non di anime e di storie, ma fra apparati di potere uniti solo da una ragione sociale.

L'implosione di queste ore è solo la conferma che la sinistra non ha ancora gli strumenti per presentare al Paese una credibile offerta politica. Sulla natura del Pd si è discusso molto fin dalla sua fondazione: fu definito come un partito senza ideologia, e per questo realista e pragmatico, ma toccò a d'Alema darne l'interpretazione autentica: «Un amalgama mal riuscito, tenuto insieme solo dal cemento del potere».

Dunque, un ossimoro politico e valoriale, un elastico che ognuno tira dalla parte che vuole, frutto di un'opa reciproca tra Ds e Margherita. Il realismo pragmatico lo ha portato a essere un partito per tutte le stagioni, disposto ad allearsi con chiunque pur di presidiare l'area di governo invece di correre il rischio di un coerente approdo riformista, che è stata la carta vincente delle altre sinistre europee. Senza un partito forte e coeso sul piano valoriale, che risolva le sue contraddizioni e non si riduca alla chiamata a raccolta del variegato fronte anti-destre, non sarà mai possibile un'elaborazione programmatica, ma solo il linguaggio del potere che degenera nel correntismo e nelle clientele e allontana il dibattito interno dal confronto sulle idee.

In questo senso, a poco è servita la verniciatura col rito salvifico delle primarie. La stessa collocazione europea, incerta fino all'approdo nel fronte socialista, è stata il manifesto delle contraddizioni, e quando fu organizzato a Roma il congresso del Pse, mettendo in discussione lo stesso atto costitutivo del Pd, si parlò addirittura di scissione.

Un partito-ircocervo, dunque, che sembrò trovare un approdo riformista solo con l'arrivo del ciclone Renzi, ma gli oligarchi gli stesero il tappeto rosso per issarlo sul vertice e poi, un secondo dopo, iniziare l'azione di logoramento ai fianchi culminata col no alla riforma costituzionale del 2016: Per cui, dopo la sconfitta del 2018, il segretario finì rottamato dalla nomenklatura che avrebbe voluto rottamare. Quella faglia non è mai stata chiusa, e ancora oggi la sinistra del Pd è attratta dalle sirene grilline, secondo il vecchio mantra di non avere nemici a sinistra, e appare quindi grottesca l'illusione di chi aveva visto nel patto Letta-Calenda la Bad Godesberg italiana. Una svolta anch' essa mai nata.

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