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Crisi di governo, comprensibili le pressioni su Draghi ma è meglio il voto dell'agonia

Riccardo Mazzoni
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Diciamoci la verità: Draghi ha tutti i motivi per sbattere la porta di Palazzo Chigi e tornare (provvisoriamente) nel suo buen retiro di Città della Pieve, e non soloacausadellesgrammaticateprovocazioniparlamentaridelsuopredecessoreaccecato dal travaglio della vendetta. L'ostilità dell'avvocato senza popolo era infatti prevedibile, e non è stata certo solo quella a scalfire l'imperturbabile corazza del premier, abituato a ben altri avversari. No: l'origine del disagio risale ai tempi del voto sul Quirinale, quando lui esplicitò la sua disponibilità e la sua maggioranza gli intimò senza nemmeno indorare la pillola di restare dov' era. Draghi, al quale fu anche imputato di aver allentato i cordoni dell'ultima legge di bilancio per tenersi buono chi avrebbe dovuto eleggerlo, fece buon viso a cattivo gioco ben conoscendo però il vero significato di quel segnale, ossia una surrettizia ma sostanziale sfiducia nei suoi confronti a opera di partiti imprigionati nella gabbia dell'unità nazionale e sempre più ostili alla sua ingombrante figura di commissario della politica: meglio un anno a Palazzo Chigi che sette al Quirinale, insomma. E a proposito di Quirinale, una qualche forma di inconfessato risentimento il premier può averla maturata anche nei confronti di Mattarella, il quale dopo aver categoricamente escluso la possibilità di un secondo Settennato, con la sua ridiscesa in campo chiuse invia definitiva anche l'ultimo possibile spiraglio per il ripescaggio in extremis del nome di Draghi. Che l'«incidente» del Quirinale abbia lasciato il segno è una certezza. Poi la guerra in Ucraina ha cambiato tutto, ma la tregua politica è durata poco, il minimo sindacale, con i distinguo pelosi sull'invio di armi a Kiev e sulle sanzioni a Mosca, fronti che Draghi ha difeso(fortunatamente)in modo irremovibile. Era dunque inevitabile che l'accumulo crescente di tensioni e di rivendicazioni identitarie, insieme all'ansia da prestazione elettorale, alla lunga avrebbe mandato in frantumi l'unità nazionale. In questo senso, Draghi ha dato una lezione di coerenza bloccando sul nascere il gioco delle tre carte di chi pretendeva di tenersi le poltrone senza rispettare il vincolo di maggioranza, come se il governo fosse un treno da cui si sale e si scende a ogni stazione. Mattarella, respingendo le dimissioni, ora gli ha dato sei giorni per ripensarci, ma lo strappo grillino e la sua risposta sono stati troppo rusticani per arrivare a una ricomposizione credibile, a meno che tutti i leader dell'ex maggioranza, Conte compreso, sipresentino tutti insieme davanti a Palazzo Chigi portando in dono oro, incenso e mirra. Scenario improbabile. Certo, lo scioglimento delle Camere e l'Italia affidata a un governo in carica solo per il disbrigo degli affari correnti suonano come un controsenso, viste le drammatiche emergenze in atto, e non è una decisione da prendere a cuor leggero. Questa legislatura nata nel segno del fondamentalismo populista ci ha abituati a tutto, ma sarebbe diabolico il ritorno a soluzioni pasticciate che andrebbero contro gli interessi del Paese. Abbiamo di fronte un Mont Ventoux bollette, crisi energetica e 230 miliardi del Pnrr da non perdere - che imporrebbe responsabilità e coesione politica, di cui però si sono perse le tracce, anche se la realtà bussa alla porta ricordandoci il nostro debito pubblico e le troppe riforme mancate, con l'imperativo categorico di evitare che la guerra in Ucraina ci trascini in un aspro conflitto sociale in autunno. Servirebbe dunque un patto blindato per concludere la legislatura in modo ordinato, magari anticipando la legge di bilancio per votare a gennaio, ma il gioco dei veti incrociati lo rende complicato, se non impossibile. Se Draghi si vide negare il Quirinale per fare scudo all'Italia restando a Palazzo Chigi, e dopo sei mesi si trova invece assediato da statisti del rango di Conte, Taverna e Patuanelli, non può stupire che abbia preso cappello rifiutando di guidare un governo balneare. La via delle urne a ottobre, certo, è lastricata di incognite, a partire dallo spread e dal rischio esiziale dell'esercizio provvisorio, ma è comunque preferibile al prolungamento dell'agonia. Con la speranza che gli italiani colgano l'occasione per chiudere la stagione dello sfascismo grillino e delle sue sciagurate macerie. 

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