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Enrico Letta sogna il “nuovo” Ulivo per mascherare il vuoto politico

Riccardo Mazzoni
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Il buon risultato dei ballottaggi, che ha coperto mediaticamente la chiara sconfitta al primo turno delle amministrative, finirà per creare nuova confusione nel mare agitato della sinistra, con Letta in mezzo a un risiko per nulla semplificato. Intanto, in proiezione delle prossime politiche, è il risultato del primo turno a fotografare la reale consistenza delle forze in campo, e inoltre il Rosatellum con cui si voterà nel 2023 sarà molto diverso dal sistema elettorale delle amministrative, in cui il maggioritario di lista avvantaggia l'eterogeneità delle coalizioni, con i partiti che corrono ognuno con la propria lista dietro il candidato sindaco. La spartizione dei collegi, invece, impone la ricerca di candidati comuni, un'equazione quasi impossibile quando un'alleanza si presenta frammentata come l'attuale centrosinistra. Sarà per questo che Letta ora non parla più di campo largo, immagine dai contorni sempre più improbabili viste le dimensioni bonsai a cui si sta progressivamente riducendo il Movimento Cinque Stelle, destinato a subire altre emorragie se Grillo insisterà con il vincolo dei due mandati.

 

 

Il mantra che sta prendendo corpo ora è il «nuovo Ulivo», una scommessa che di nuovo non ha nulla e maschera l'assenza di un progetto politico credibile per rifugiarsi nell'usato sicuro. Letta fu uno dei protagonisti di quella stagione, e ritiene quel modello ancora spendibile «perché ha avuto una grande capacità di partecipazione ed espansione andando oltre la classe politica», con un riferimento esplicito alla società civile, oggi simboleggiata da un calciatore - Tommasi a Verona - e da un professore - Fiorita a Catanzaro. Ma aggrapparsi al passato non è mai una grande idea, anche perché l'esperienza mitizzata dell'Ulivo si dimostrò in realtà poco più di un cartello elettorale che infatti portò al ribaltone contro Prodi con l'invenzione del centro-sinistra col trattino per spianare la strada di Palazzo Chigi a D'Alema. Ancora peggio andò con il governo dell'Unione, nel 2006, un'ammucchiata tenuta insieme solo dal cemento del potere che naufragò sotto il peso del suo malgoverno, di un programma sterminato e inattuabile e delle divisioni insanabili sulla politica estera (le stesse che, con una guerra in corso, dividono ora Letta e Conte). Prima l'Ulivo e poi l'Unione, dunque, si conclusero con due fallimenti politici, anche perché l'unico vero denominatore comune fu l'antiberlusconismo, che oggi ha perso vigore ma viene riproposto in altre forme come argine alla vittoria della destra sovranista di Meloni e Salvini. Veltroni, alle elezioni del 2009, prendendo atto dell'impossibilità di tenere insieme le sinistre sparse, decise di dichiarare l'autosufficienza del Pd, ma fu un nobile tentativo subito rientrato.

 

 

Da allora sono passati tredici anni e la parte riformista del Pd, dopo tre legislature passate quasi incessantemente al governo senza mai vincere le elezioni e alleandosi quasi con tutti, chiede apertamente se abbia ancora un senso insistere nell'abbraccio strategico con i Cinque Stelle, visto il tasso altissimo di populismo che permane nel grillismo perdente. La scissione dei dimaioisti (copyright Maurizio Bianconi) ha complicato ulteriormente il quadro, perché ha aggiunto altri veleni al groviglio di veti incrociati dei potenziali alleati. A Verona, a sostenere Tommasi c'erano sia Calenda che Conte, ma Calenda ha già avvertito che alle politiche correrà da solo, e illudersi di pescare un jolly come Tommasi a livello nazionale è solo una pia illusione: la sinistra peraltro ha già ampiamente sperimentato sulla sua pelle che ai trionfi alle amministrative sono sempre seguiti dolorosi rovesci elettorali, e questa volta non c'è stato neppure il trionfo sbandierato sui media, ma un sostanziale pareggio determinato più dagli errori avversari che dai germogli del nuovo Ulivo, che rischiano di trasformarsi subito in rami secchi.

 

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