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2 Giugno, perché dobbiamo essere orgogliosi di celebrare la nostra Repubblica

Mario Benedetto
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Il 2 giugno 1946 gli italiani si sono dati non solo una forma di Stato, ma hanno fatto una scelta di campo, civile e culturale, che segna uno spartiacque rispetto alla nostra tradizione storica. La monarchia non è stata, sia a livello concettuale che pratico, una bella esperienza e non può rappresentare un moderno modello istituzionale e di governo. Esistono Paesi importanti e floridi che tutt' oggi vivono all'insegna di questa forma di Stato, il cui requisito fondante continua a trovare, sinceramente, scarsa comprensibilità. Parliamo della trasmissione dinastica del potere, parolone usato per definire un concetto, uno status che andrebbe, almeno a livello teorico, raggiunto per meriti e nel rispetto del popolo, come vogliono le migliori tradizioni democratiche. Per noi è un'abitudine ma, per l'appunto, non ovunque è così.

In realtà, guardando bene anche a casa nostra, dove la Repubblica resta chiaramente sacra, non sono mancate evoluzioni nella rappresentanza politica che poco hanno a che vedere sia con il merito che con la volontà popolare. Abbiamo ancora al governo forze che, abilissime nel parlamentarizzarsi, in realtà nascevano proprio puntando il dito contro la «competenza», quasi fosse pericolo per le Istituzioni, quando invece ne rappresentano la vera garanzia. Per non parlare dell'espressione della volontà del popolo, negli ultimi anni più volte assoggettata a esigenze di contesto, che hanno fatto correre ai ripari con l'appello a coloro che ormai sono noti a tutti con l'appellativo di «tecnici».

Eccoci dunque arrivati a celebrare nuovamente la nostra festa, la festa della nostra Repubblica, ma con che spirito? Intanto con la consapevolezza di rappresentare un Paese civile, inclusivo, solidale. Competitivo nonostante le criticità, globali e nazionali, degli ultimi anni. Poi, di converso, con altrettanta consapevolezza, un Paese che ha bisogno di rispolverare capacità programmatiche e di visione sistemica, di lungo periodo. Fattori entrambi attualmente molto rarefatti e dei quali, invece, avremmo tanto bisogno. Siamo stati a tratti persino capaci di fare delle esigenze nazionali una questione di parte, cui spesso viene dato il nome di «sovranismo», quasi fosse un abuso di potere o l'espressione di un credo politico. Ne avessimo di potere da esercitare, nel mondo.

Anzi, oggi quell'influenza che conserviamo e manifestiamo, piaccia o no, la dobbiamo proprio a un signore, tecnico, chiamato a tenere in equilibrio un parlamento e un quadro politico a dir poco eterogeneo ed instabile. Ecco, proprio il contrario di quello che la festa della Repubblica dovrebbe rappresentare: un momento di trionfo di una identità nazionale forte, perché radicata nel tempo di una grande tradizione, qual è la nostra. Nonché di una compattezza attorno a cause e ideali, non ideologie, che rappresentino la nostra come una vera, unica e indivisibile Repubblica.

La guerra e le sollecitazioni economiche e politiche che ne derivano rappresentano, a livello internazionale, già di per sé un motivo di preoccupazione per una stabilità che non c'è alcun bisogno di alimentare tra le mura di casa nostra. Ma questo fa parte di un senso di responsabilità, di una cultura, di una coscienza politica che dimostra d'incarnare più il popolo di chi va a rappresentarlo. Ora come allora, quando con un voto democratico ha espresso una scelta di civiltà, ha scritto le regole su cui si basa la nostra vita democratica e sociale. È di questo che oggi noi, e i nostri rappresentanti, dobbiamo essere orgogliosi e avere rispetto, consapevolezza, memoria.

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