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Col redditometro ritornerà lo Stato di polizia fiscale: così si puniscono gli onesti

Riccardo Mazzoni
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Le tasse evase oggi in Italia ammontano a circa 130 miliardi di euro. Un livello «non compatibile con nessun sistema veramente democratico», disse l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Befera quando l’evasione stimata dalla Corte dei Conti era addirittura venti miliardi di più. L’equazione finora mai risolta da nessun governo sarebbe quella di tutelare le imprese sane rendendo più efficace l’accertamento dei tributi, ma al tempo stesso evitando di trasformare il sistema fiscale in un ostacolo per la crescita dell'economia. È la scommessa del Pnrr, e speriamo che Draghi la vinca, perché il vero problema è l’eccessivo peso delle tasse che alla fine ricade sempre e solo sui soliti noti: al netto del sommerso, la pressione reale sui contribuenti onesti è arrivata nel 2020 al 43,1%, in crescita di quasi un punto nonostante la pandemia.

 

 

È innegabile che il circolo vizioso dell’evasione viene alimentato anche dalla crescita esponenziale della pressione fiscale, ed è illusorio tentare di interromperlo con strumenti che non hanno mai funzionato come il redditometro senza prima aver messo in cantiere una riforma complessiva del sistema, compreso quello della riscossione. In una fase cruciale come l’uscita dalla crisi del Covid, mentre il mondo produttivo sta faticosamente cercando di ripartire, ripescare il redditometro significa rimettere in moto la logica degli studi di settore, finiti in archivio come il simbolo del fisco oppressore senza aver risolto nulla. Mentre a sinistra si torna a innalzare la vecchia bandiera della patrimoniale, va detto alto e forte che ad essere incompatibile con la democrazia non è solo l’evasione, ma anche l’attuale livello di tassazione, e il redditometro in questo momento è la risposta sbagliata a un’esigenza indiscutibile. E poi, di quale redditometro stiamo parlando? Quello dell’ultimo governo Berlusconi, ad esempio, interveniva solo dopo l’accertamento da parte dell’amministrazione che una dichiarazione dei redditi non era attendibile. Solo allora scattava l’accertamento induttivo: il redditometro era cioè lo strumento per far sì che la seconda fase dei controlli fosse oggettiva e non discrezionale. Era stato quindi ideato proprio per porre fine agli accertamenti induttivi, fatti in modo discrezionale da parte del fisco. Col governo Monti cambiò invece pelle, con l’inversione dell’onere della prova: era infatti il contribuente, e non il fisco, a dover dimostrare che la sua dichiarazione era veritiera. Un paradosso incostituzionale.

 

 

Ora il redditometro riesumato dal Mef dovrebbe basarsi sul ricorso automatico alle medie Istat, che rischia di far scattare accertamenti assolutamente ingiustificati. Non è infatti corretto ricorrere a una presunzione statistica per scovare gli evasori. La Costituzione all’articolo 53 stabilisce che ciascuno va tassato secondo la sua capacità contributiva, non secondo quella media di una famiglia tipo. Da ciò consegue che se un cittadino ha dichiarato un reddito di 30mila euro e per il fisco, sulla base del redditometro, dovrebbe averne guadagnati 42mila, lo Stato non può pretendere, appunto, di invertire l’onere della prova chiedendo al cittadino di dimostrare come mai il suo reddito è sotto la media. Di tutto ha bisogno l’Italia del dopo-Covid, che di metodi da Stato di polizia fiscale tanto cari ai grillini.

 

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