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Guido Carli il timoniere della lira

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Figura di spicco di una generazione che guidò il Paese Fermezza e modernità dal boom all'alba dell'euro

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C'era un tempo nel quale, in Italia, i banchieri facevano banca. Il ministro dell'Economia era seduto su un Tesoro. E i governatori della Banca d'Italia «governavano» veramente. Era il tempo, non così lontano anagraficamente, nel quale Palazzo Koch gestiva la sovranità monetaria con piglio e autorevolezza. E nello scranno più alto di via Nazionale sedevano uomini come Guido Carli, timoniere della lira dal 1960 al 1975. Anni intensi nei quali all'effervescenza del boom, seguirono quelli bui della contestazione e delle lotte sindacali. E nel corso dei quali Carli, morto venti anni fa, tenne dritta la barra dell'istituzione che, allora come oggi, orientava le scelte della politica economica del Paese. Tempi duri anche per l'impalcatura del potere finanziario in Italia messo a dura prova dal ciclone Michele Sindona. Il Governatore si oppose a una serie di manovre spericolate guidate dal banchiere siciliano evitando però soluzioni traumatiche. Anche lì in ossequio alla sua proverbiale discrezione. Agire sì ma senza sollevare polveroni mediatici. Al primo gradino del suo decalogo di azione figurava una sola parola: credibilità. Ed è con questa che Carli continuò a influenzare il cammino della macchina produttiva italiana negli incarichi successivi. Sì, perché l'ex Governatore era competenza troppo ricca per essere dimenticata dal Paese così in fretta. Allo scadere del suo mandato l'Avvocato Agnelli lo mandò a guidare Confindustria. Ci restò dal 1976 al 1980. Un ambiente diverso dalle ovattate stanze nel quale era solito lavorare. E il palazzo di via Dell'Astronomia ebbe esattamente la percezione del suo distacco. Spiega Cesare Romiti, in quegli anni ai vertici della Fiat, che Carli «fu una grande personalità, ma per quanto riguarda la Confindustria in alcune cose ha sbagliato. Si sarebbe dovuto calare di più nel mondo dell'impresa, circondarsi più di imprenditori. Invece si portò persone che provenivano dalla Banca d'Italia, e la sua gestione operativa ha risentito più della sua impronta di banchiere centrale che non della mentalità confindustriale». Gli imprenditori non lo amarono. Probabilmente lui che aveva servito lo Stato in posizione di terzietà non riuscì a calarsi nella difesa corporativa degli interessi di una sola parte. Così il suo statuto d'impresa, in pratica il primo nocciolo di una normativa Antitrust, concetto quasi sconosciuto nel linguaggio del capitalismo relazionale, non passò. La sua presenza nel dibattito economico non si esaurì con il passaggio confindustriale. Nel 1983 arrivò il tempo della discesa in politica con l'elezione a senatore della Democrazia Cristiana. Poi l'incarico governativo come ministro del Tesoro nel sesto e nel settimo governo Andreotti, dal 22 luglio 1989 al 24 aprile 1992. Fedele al principio di uomo di civil servant per la collettività difese la lira dagli attacchi speculativi e iniziò il processo di disimpegno dello Stato dalla produzione. Era fortemente convinto che, per il risanamento della finanza pubblica, si dovesse puntare sulle privatizzazioni, sulla politica dei redditi e sulla riforma della previdenza sociale. Obiettivi alti e raggiunti solo in minima parte. La sua visione prevedeva, infatti, l'indipendenza della politica monetaria dal potere politico e l'uso responsabile della politica fiscale in coerenza con un modello di sviluppo economico non inflazionistico. Una visione oggi attualissima ma assolutamente irrealizzabile in Italia durante gli anni 70 e fino a Tangentopoli. Periodi nei quali la politica affermava il principio del suo primato sull'economia e che di fatto rese vano lo sforzo dell'ex banchiere centrale, conscio già allora del prezzo da pagare alla miopia politica. Un conto salato che scavalla il millennio e arriva fino a oggi: un debito pubblico italiano monstre e il conseguente blocco della crescita dell'economia che perdura dagli anni '90. Carli provò per questo a giocare la carta del cosiddetto «vincolo esterno». Se la politica è debole nella scelte difficili da prendere allora cedere una parte della sovranità sui conti pubblici a un ente sovranazionale come l'Unione Europea può fornire l'alibi alla classe dirigente per imporre i sacrifici. Così fu lui a guidare la trattativa su Maastricht, pietra angolare sulla quale costruire l'edificio dell'euro e la cui porta restava chiusa per l'Italia. La sua intuizione nei mesi precedenti la firma del trattato fu vincente. Infatti riuscì a far inserire nel testo finale misure di interpretazione meno rigide del parametro del debito pubblico, favorendo così il futuro ingresso dell'Italia nella moneta unica europea. Nel febbraio 1992 firmò il trattato finale insieme al ministro degli Esteri De Michelis. L'Italia anche grazie alla sua ostinazioe è oggi nell'euro. Anche se recentemente Ciampi ha ricordato che non era questa l'unità monetaria per la quale il Governatore si era battuto, il Paese, grazie a Carli, gioca ancora un ruolo da leader sullo scacchiere europeo.

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