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La politica si sostituisce al mercato

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Da tempo l'amministratore delegato del gruppo torinese, Sergio Marchionne, va dicendo che nell'arco di pochi anni la maggior parte della produzione automobilistica globale si dovrà a pochi grandi player: più o meno il numero delle dita di una mano. E lo sforzo, anche ardito, che egli sta conducendo per far sì che Fiat sia uno di questi soggetti superstiti si spiega all'interno di questa prospettiva. Ci sono però altri fattori, del tutto sganciati dal mercato, che stanno condizionando pesantemente l'intera vicenda. Se la Fiat delle minuscole Cinquecento si appresta a mettere le mani sulla Chrysler dei macchinoni che piacciono tanto agli americani è chiaro che una parte della spiegazione sta nel fatto che un'utilitaria all'europea appare meglio attrezzata ad intercettare le sovvenzioni «ecologiche» delle nuove politiche obamaniane. La svolta di Washington, insomma, sta fortemente decidendo anche i destini di Detroit. Oltre a questo, è chiaro che puntare su vetture più economiche e di limitate dimensioni vuol dire anche cercare di orientarsi verso i nuovi mercati asiatici, che a detta di molti dovrebbero esplodere negli anni a venire. Ma in un caso come nell'altro vi sono numerosi interrogativi politici aperti: perché non è detto che l'Obanomics regga oltre il quadriennio del mandato in corso (dato che lo scontento verso l'amministrazione democratica inizia già a manifestarsi) e neppure vi è certezza che Cina ed India siano davvero disposte a farsi «invadere» da prodotti europei ed americani. La tentazione protezionista non è un'esclusiva di Roma o di Parigi. Sia quel che sia, sono comunque ormai più rilevanti le considerazioni di natura politica e geopolitica che quelle strettamente connesse alla produzione e ai consumatori. Il risultato è che si ha chiara la sensazione che mentre qualche anno fa la globalizzazione portava a ragionare essenzialmente in termini imprenditoriali, il ritorno massiccio del keynesismo sta mutando il modo stesso di fare affari.A tale riguardo è significativo come Marchionne va giocando la sua partita in Germania, dato che quando esprime la disponibilità a salvare i posti di lavoro tedeschi (pur di portare a casa il risultato), è presumibile che egli abbia già in mente una riduzione della propria presenza negli stabilimenti dell'Est: a partire dalla Polonia. Ancora una volta, non è il mercato a decidere, ma la politica. Con il risultato che quella che era stata una scelta squisitamente industriale (legata a costi, qualità, opportunità reali) viene messa da parte in virtù di ragionamenti di altra natura. Non c'è da stupirsi più di tanto, comunque, perché da mesi tutto il sistema produttivo sta ripensandosi sulla base degli orientamenti politici prevalenti: al fine di intercettare quegli aiuti e sussidi di ogni genere che i governi stanno stanziando in varie direzioni con il pretesto di arrestare la crisi. Anche l'intera vicenda della Fiat alla conquista del mondo va letta, dunque, entro questo scenario generale.

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