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Franchi tiratori a Firenze 1944

In città sono entrati gli Alleati ma un cecchino non si arrende. Le prime pagine di «Fascista da morire», il romanzo di Bernardi Guardi

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Firenze brucia. Brucia sempre d'estate. E poi, in agosto, per l'Assunta e avanti, fino a settembre, pare una conca di fiamme. Scottano le strade, i tetti, le botteghe, anche nel verde si affoga dal caldo. Soffochi alle Cascine, in Piazza della Signoria e a Piazzale Michelangelo il sole ti stende. Ma quest'anno c'è qualcosa di diverso: e bruci di più. Ci sono gli Alleati che l'hanno invasa o, se ti garba di più, liberata. Sono biondi, rossastri, con la semola sulla pelle, oppure bianchicci che sembrano panni lavati con la varechina, ma anche bruni, neri, olivastri, cotti dal sole, con la bocca sempre spalancata e tanti denti in mostra. E stanno riempiendo la città di cioccolata. Cioccolata a strafogo. Ha il colore della merda. Tavolette di merda. Mi fanno vomitare. Ma la gente è lì a far festa. Uomini e donne che si accapigliano come gli indigeni quando gli dai le collanine di vetro. Bimbi con la bocca piena, tutta saliva marrone che gli scivola sul mento e sul collo. Sudati, sudici. Dappertutto ti par di fiutare l'unto, il lercio. E a puzzare di marcio non sono solo le carogne di gatti e cani mescolate alla spazzatura, dove i topi davvero ballano e si ingrassano. Puzza di marcio Firenze. Dio mio, com'è bella e come puzza! Ci sono gli Alleati che vinceranno ma che ancora ne buscano. E insieme a loro i partigiani. Vinceranno anche loro, vinceranno insieme a loro, ma non è che si vogliano un gran bene. Noi siano gli ultimi che si resiste e si spara. Ci garba chiamarci franchi tiratori ma gli altri ci chiamano cecchini come i soldati di Cecco Beppe che nell'altra guerra tiravano addosso ai nostri quando meno se l'aspettavano. Noi si tira solo a chi merita di morire: e son tanti. I partigiani sono quasi tutti compagni, gli Alleati stanno dalla parte dei padroni. Ai partigiani piace il rosso, di stelle e strisce e altri disegnini ne farebbero volentieri a meno. Contentatevi, bimbi. Del resto, siete liberi, no? Lo siamo anche noi che, dovunque si guardi, si sputa dallo schifo. Liberi. E finché non ci chiappano e non ci ammazzano uno dopo l'altro, anche allegri. Perché possiamo sparare e nel bollore così ti sfoghi. Oddìo, io per ora faccio solo cronache, e non è roba che mi ha ordinato il dottore. L'ho scelto io. E ho raccolto un sacco di notizie. Nero su bianco, sperando che i posteri non le infiocchino e non infinocchino chi legge. Non voglio la ragione, voglio che dicano: ecco chi c'era. Diranno: ce n'erano, di passioni. Io con la mia: che brucia quanto e più di questo agosto. Ma quando scrivo non prendo fuoco: metto giù quel che vedo o che vengo a sapere. Me lo hanno insegnato e lo faccio. Penna, carta e inchiostro, per adesso: il fucile non ce l'ho ancora. Sto aspettando di averlo e di avere il mio tetto, dove appostarmi per tirare giù, dopo avere ben mirato. Non posso mica ammazzare una donnina che va col secchio a prender l'acqua o un tipo che bighellona a passeggio senza dar noia a nessuno. Anche se può dar noia a me che se ne stia a bighellonare. C'è chi dice che questi incidenti ci sono stati. Non so se sia vero. Io voglio morire da franco tiratore. Mi chiamino pure cecchino, mi scaracchino o mi piscino addosso quando capiterà, ma io so quello che devo fare. 2. Lo so da giugno quando dalle parti di Lungarno Ferrucci mi capitò di incontrare una ventina di ragazze, tutte belle bimbe ma con i capelli tagliati corti come i maschi, vestite con una camicia nera senza distintivi e pantaloni militari verdastri al posto della gonna. Nel sole brillavano. Erano un po' infagottate, ma erano femmine. Gli ficcai gli occhi addosso perché pensavo alle labbra, ai capezzoli, alle cosce, a quanta roba ci hanno per farti godere, e avevo quasi voglia di mettermi a fare il ganzo, di andar lì ad attaccar discorso, ma loro non mi guardavano nemmeno. Mica c'ero, mica ero un maschio, che ti annusa e tu annusi lui: così ci rimasi male. Solo per un po'. Lo capii, avevano altro per il capo. Si esercitavano a tirare bombe. Le stringevano in mano e poi un bel lancio in perfetto stile guerriero. Mi saltò negli occhi la copertina di un quaderno delle elementari, che guardavo e riguardavo: c'era il Balilla di Portoria, il suo sasso che fischia nell'aria e lui che è piccino, ma, siccome è intrepido, sta gigante nella storia, come dice la canzone. Perché lascia che il mortaio degli austriaci sprofondi nel fango e inizia la sassaiola della rivolta e della libertà. E le bimbe avevano questo in mente: sassaiole di fuoco. Si preparavano a combattere perché gli Alleati avevano conquistato Roma, risalivano la Penisola con l'aria da bulli e di lì a poco ce li saremmo trovati in casa. Ed ecco, allora, le bimbe fasciste fiorentine pronte alla resistenza. Insieme a tutti quelli che ci stanno, in nome della bandiera e dell'onore. Visto che le forze armate repubblicane, le Camicie Nere e i Tedeschi hanno altro a cui pensare: rafforzare la Linea Gotica e gli ultimi pezzi della nostra Repubblica, bloccando l'avanzata del nemico verso Nord. Dove potrebbe esserci anche un Dio fascista che arrivi a rovesciare le sorti della guerra. Intanto a Firenze ci siamo noi che abbiamo il fascismo e la città nel sangue. C'è anche gente che viene da altre parti. Magari sono sfollati qui, ci si sono trovati bene e vogliono dare l'ultimo bacione a Firenze a modo loro. Forse siamo romantici con i nostri succhiotti insanguinati ma ci abbiamo anche le armi e siamo decisi. Forse non è finita. Pavolini spera di rompere i coglioni ai liberatori almeno per qualche altro giorno: poi chi vivrà vedrà. E se non vivremo, la vuoi mettere la soddisfazione di una città che non si è buttata via, che non ha sbaraccato l'onore, arrendendosi al nemico, ma lo ha preso a fucilate?

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