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Quando Platone odiava le città della costa

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Unosoltanto mostrò di non apprezzarlo molto, anzi confessò apertamente di temerne l'influenza, che gli sembrò perniciosa, su noi poveri mortali, e purtroppo era uno scrittore e pensatore di eccezionale grandezza, forse il più grande di tutti i tempi. Si chiamava Platone e rivelò questo suo timore, che potrebbe anche definirsi una vera e propria «talassofobia», quando volle descrivere quelle che a suo parere dovrebbero essere le principali caratteristiche della città ideale. Nessun luogo reale o immaginario, storico o fantastico, attuale o virtuale è infatti meno marino, più contrario alla natura dei popoli marinareschi, più discordante dai loro gusti e disgusti, della famosa repubblica idoleggiata da quel leggendario nemico delle cosiddette società aperte, e per ciò stesso grandi amiche e amanti del mare, che in un certo senso è il presupposto e il simbolo di ogni possibile apertura spaziale e mentale. Questa decisa avversione alle società aperte Platone la espresse com'è noto ben due volte nelle due diverse e successive descrizioni della sua città ideale: quella che dipinse da giovane nella Repubblica e quella che da vecchio ridipinse nelle Leggi. Due luoghi di ognuno dei quali sarebbe forse ingiusto insinuare che è meno totalitario dell'altro. Ma che sono certamente equipollenti per la loro assoluta, rigorosa, irreprensibile antimarinità. Noti sono i requisiti della prima: comunanza dei beni e delle donne, governo dei filosofi, scuola di stato, i classici privati delle parti troppo fantasiose, anche Omero censurato, poesia musica e teatro controllati dal governo, dunque niente flauti, tamburelli, ritmi eccitanti, canzonette voluttuose, balli sfrenati e farse licenziose ma sempre e soltanto roba pacata, nobile, maestosa, solenne, istruttiva, edificante e marziale, tipo inni sacri, marce patriottiche, festival pedagogici e virtuosi girotondi. Trattasi insomma di un posticino severamente precluso alla fiaba, alla tarantella, alla mossa delle sciantose e implicitamente anche alle gite in barca e agli scandali al sole. Esplicitamente antimarini sono però i principi ispiratori della città ideale descritta nelle Leggi. Il primo è l'idea che lo stato dovrebbe acciuffare i fanciulli quando puzzano ancora di latte per sottrarli in tempo alla funesta influenza di tutte quelle donnette che ne guastano l'anima per sempre popolandola di fate, cappuccetti rossi, belle addormentate e principi azzurri. Il secondo è il divieto di ridere troppo, da imporre a tutti indistintamente, maschi e femmine, ricchi e poveri, vecchi e piccini, e innanzitutto agli dèi, che secondo quel papà della filosofia occidentale dovrebbero smetterla di sghignazzare, come finora hanno sempre fatto, davanti alle sventure dei mortali. Il terzo infine riguarda il punto essenziale di questo discorso, ossia l'ubicazione della città, che quel filosofico urbanista raccomandò di edificare il più lontano possibile dal mare. Dunque niente porti, navi, traffici, viaggiatori, marinai, pescatori, angiporti, puttane, notizie dall'estero, affari, contrabbando, prodotti forestieri, costumi e religioni di altri mondi, musiche e balli esotici, zuppe di pesce, zuppe razziali, zuppe culturali e così via meolando, impasticciando e intrugliando. È evidente che questa fisima di Platone nasceva da una profonda avversione per il forestiero e il diverso. Ma forse il massimo oggetto della sua avversione era l'immagine della più incantevole straniera di tutti i tempi: quella Afrodite che nacque proprio dalla spuma del mare quando, secondo uno dei grandi miti da lui detestati, vi caddero alcune gocce del sangue di Urano evirato dal figlio Cronos.

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