Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

di Pablo Echaurren La competente Direzione Generale del Ministero dei Beni Culturali ha avviato le procedure per il commissariamento della Fondazione MAXXI di Roma.

default_image

  • a
  • a
  • a

Ladecisione, si legge in una nota, «si è resa necessaria, tra l'altro per la mancata approvazione del bilancio per l'anno 2012 da parte del consiglio di amministrazione. Il bilancio 2011 ha infatti registrato un forte disavanzo, che rischia di aumentare sensibilmente nel 2012». Vabbè non sono un fiscalista o un revisore di conti e lascio ai tecnici dello sbilancio il compito di chiarire i dettagli. Ma i frattagli di questi mammozzoni museali privi di una qualunque intelligibile direzione lasciano comunque interdetti. Provate a entrare al MAXXI e a capire cosa ci sia da vedere. E perché questa cosa invece di un'altra. E dove comincia e dove finisce la mostra. Provate a metabolizzare le scelte a capocchia, lo sguardo severo, l'enorme spocchia di chi non ammette discussioni né intromissioni. Bei tempi quando ci si facevano quattro risate con dei semplici Stanlio e Ollio su tela! Nata come opera meritoria dell'archistar Zaha Hadid, fu vista non solo come una lungimirante cattedrale nel deserto della cultura italica ma dell'intero quartiere Flaminio. In breve da «cattedrale nel deserto» si è trasformata in «deserto nella cattedrale». Vuoto totale. Di iniziative forti, di idee trainanti, di progetti illuminanti. Di programmi calzanti. Le mostre sembrano buttate là come riempitivo, come pretesto, come manifesto del «me ne frego» che tanto basta uno sfrego sulla parete immacolata per gridare all'agnizione. Pareti che sembrano destinate a una scuola di arrampicata libera, free climbing. Sorvoliamo sui costosi acquisti, dopo Alighiero Boetti, Francesco Clemente, William Kentridge, Maurizio Mochetti, Gerard Richter, Gilbert & Gorge, è la volta di Mario Airò, Laura Favaretto, Giuseppe Gabellone. Un tabellone di nomi buttati giù alla scappona. Già in nuce si capiva dove si andava quando il «futuro ampliamento della GNAM dell'ex caserma Montello di via Guido Reni» (ora MAXXI), indisse un concorso per stabilire quali fossero i prescelti a entrare nel «Regno dei Ciechi» della raccolta permanente (Airò, Arienti, Bartolini, Beecroft, Esposito, Galegati, Manetas, Mantelli, Marisaldi, Moro, Pivi, Tesi, Toderi, Vedovamazzei, Vezzoli). Ci fu una commissione, una votazione, una pasturazione dei giovinotti avannotti. Chi si sentirebbe oggi di dire che questo atto fondativo sia stato un arricchimento del patrimonio artistico nazionale e non invece un'operazione promozionale di scarso interesse financo locale? Il MAXXI è stato guidato a svista, seguendo una corrente fin troppo scontata, intermittente, indifferente al gusto del pubblico, che pure dovrebbe avere una sua voce in capitolo. Lo so che rivendicare i diritti del pubblico pagante è quanto mai retrogrado per non dire pleistocenico. Non dico assecondarne le preferenze ma tastargli il polso sì, non c'è nulla di male. Se lo spazio è pubblico la gestione non può essere solipsistica, autoreferenziale, consustanziale solo alle cordate private che ne condividono le scelte. Altrimenti si scadrebbe nell'uso personalistico di spazio pubblico. In quel conflitto di interessi tanto sbandierato in altri settori della vita sociale. Certo, è difficile da provare, ci sono le scelte autoriali, gli intoccabili criteri curatoriali, i soliti curiali che mai e poi mai si opporrebbero allo stile in voga. E i nomi sono sempre gli stessi usciti dalle sale-party dove nascono i geni compresi. Ma se pure non ci sono gli estremi della denuncia penale ci sono gli stilemi di una condotta degna della sfiducia culturale generale. Come si può affidare il comando a chi non rappresenta che un'unica tendenza? Una siffatta macchina espositiva dovrebbe rendere conto delle molteplici espressioni dell'arte contemporanea, non tifare per la propria squadra e schifare tutte le altre. Ma tanto nessuno protesta, nessuno grida all'arbitro venduto, nessuno alza la testa. Gli verrebbe subito mozzata dai talebani della performance, del site-specific, dell'istallazione come contestazione di quel ancien régime che ancora si aggrappa all'odiato «quadro». Il giorno dell'inaugurazione è tutto uno sfarfallare di bella gente che non gliene frega niente di cosa viene mostrato e di cui non si avrà più notizia fino al prossimo vernissage. Gli immensi saloni, i finestroni, gli scaloni, servono alla superba parata, all'orgoglio di entrare nella lista, di essere in pista. Servono a fare le «vasche» insomma. È la riedizione di lusso dello struscio paesano. Le signore impernacchiate, i notai forforosi, i cumenda danarosi riscoprono l'artista avanguardista che è in loro. Come il fanciullino pascoliano. Se una volta s'andava alle messe INRI col vestito della festa ora si va alla kunst-messe con l'invito RSVP. Poi il resto dei mesi a seguire regna un generale senso di abbandono, di maestosa solitudine, di grandiosa moltitudine assente ingiustificata. Si sa il popolino disdegna le vette della sperimentazione. Le rare anime in pena che si aggirano da un estintore all'altro si sentono parte di una comunità eletta, retta da una fede incrollabile nel curatore in carica. Iniziati al culto dello pseudo-colto. È la cornice (architettonica) che prevale sul contenuto, è il contenitore che assolve l'artista espositore di turno trasfigurandolo nel novello Sbronzino, nel redivivo Banaletto, nel provocatorio Partigianino, nel miraggio dello Scaravaggio a portata di mano. E assistere alla divina transustanziazione è il fine di ogni esposizione come si deve. È proprio vero: il miracolo dell'arte è sopravvivere al mondo dell'arte.

Dai blog