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di Gabriele Simongini Si accende di nuovo il fuoco del dibattito sul rapporto fra arte contemporanea e committenze ecclesiastiche a proposito della cosiddetta «arte sacra».

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Eda qualche tempo si è inserito nel confronto con decisione, come è suo costume, anche Vittorio Sgarbi. Anzi, il suo ultimo libro, «L'ombra del Divino nell'arte contemporanea», è tutto dedicato al rapporto fra arte e fede nella contemporaneità. Ne viene fuori una disamina appassionata e fortemente conservatrice. Destinata, ovviamente, a fare scalpore, anche per le bastonate verbali riservate alle opere di Burri (il cretto di Gibellina definito una lapide), Pomodoro («le orride porte nel Duomo di Cefalù»), Vangi («campione di incompatibilità nelle opere per la Cattedrale di Pisa e nel Duomo di Padova»), Fuksas (la chiesa a Foligno definita un «edificio di straordinaria bruttezza, un magazzino che diventa spazio sacro»). Per non parlare del Santuario di San Gabriele dell'Addolorata in provincia di Teramo, ai piedi del Gran Sasso, definito una «scatola da scarpe», «un hangar di cemento che mortifica qualunque ansia spirituale». La sferzante analisi di Sgarbi parte da una riflessione di papa Benedetto XVI: «Nella liturgia, come pure negli altri campi della vita artistica e in misura maggiore che in essi, le grandi opere del passato conserveranno sempre il loro posto. Chi vorrebbe, per esempio, ritenere Bach come superato e inadeguato per il nostro tempo? Al tempo stesso però esse sono forze d'ispirazione che non sono l'ostacolo a forme nuove ma anzi addirittura le suscitano». Ecco, secondo Sgarbi, il punto è tutto qui: le opere contemporanee non possono interrompere la continuità di dialogo secolare che ha legato tante epoche sotto il segno dell'armonia e bisogna scegliere solo quelle che in qualche modo «sono permesse» dai capolavori del passato. E così «L'ombra del Divino nell'arte contemporanea», cioè quello che gli artisti devono fare per uno spazio sacro «è l'ombra di un'esperienza estetica già data». E quindi, scrive Sgarbi, «l'ombra della forma di Michelangelo, Bernini, Donatello, è quello che gli artisti contemporanei realizzano pur creando qualcosa di perfettamente autonomo senza dover copiare». Tutto ciò fa riferimento alla vicenda dalla ricostruzione architettonica della Cattedrale di Noto, ripristinata nelle forme originali dopo il terremoto che l'aveva danneggiata, e soprattutto al vasto piano decorativo realizzato da molti pittori e scultori contemporanei scelti proprio da Sgarbi. Ognuno di loro ha dato vita a decorazioni che non sembrano appartenere al nostro tempo ma che, per rispetto verso l'architettura e il luogo sacro in cui sorgono, devono per forza di cose recuperare una continuità col contesto precedente. Però di fatto, e lo ammette lo stesso Sgarbi, con un'operazione del genere si impedisce «agli artisti di essere nel nostro tempo», ingabbiandoli nella nostalgia del passato. E sembra un po' troppo provocatorio anche dire, come fa l'autore, che solo chi ha fede profonda può fare arte ed architettura sacra: «gli artisti profani devono restare fuori dalla chiesa, possono entrare solo coloro che sono disponibili a misurarsi con il soggetto religioso e non lo intendono come una contraddizione della loro ispirazione». Sgarbi non risparmia critiche neppure alla Chiesa, che con le sue innovazioni liturgiche a sfondo popolare avrebbe perso una parte del suo carisma rituale influenzando negativamente anche gli artisti. Così come sarebbe stato un errore, secondo lui, scegliere artisti prima di tutto premiati dalla notorietà, «indipendentemente dalla loro fede e dalla loro vocazione formale», nella grande mostra che qualche mese fa ha celebrato in Vaticano i sessant'anni di sacerdozio di papa Benedetto XVI. Ma quali sono i buoni esempi del rapporto fra arte, architettura e committenza ecclesiastica? Eccone alcuni, secondo Sgarbi: la cappella de Menil a Houston con i tre trittici e i cinque pannelli singoli di Marc Rothko («il più straordinario mistico della pittura contemporanea») e l'edificio ottagonale progettato da Philip Johnson (e non da Piano come scrive Sgarbi), la Chiesa dell'Autostrada del Sole di Giovanni Michelucci (inizio anni Sessanta), il santuario di Padre Pio realizzato da Renzo Piano a San Giovanni Rotondo con l'altare di Giuliano Vangi, le chiese ticinesi di Mario Botta per il loro ìslancio trascendente”. Al di là delle pur utili polemiche, restano fra le riflessioni più belle del libro quelle dedicate al potere creativo dell'artista con la sua sacralità connessa all'umano della quotidianità: «L'artista non è uno sciamano, il suo problema non è essere strumento di Dio; egli non è mediatore di qualcosa, ma è Dio stesso. L'artista è Dio in quanto manifesta la divinità immanente, la divinità che cammina per strada».

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