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Da Mirò a Canova Primavera romana classica e moderna

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Dopola mostra di Salvador Dalì al Vittoriano, si sono inaugurate ieri anche le rassegne di altri due geniali pittori dell'inconscio: Sebastian Matta all'Auditorium e Joan Mirò al Chiostro del Bramante. A dir la verità, è un Mirò dimezzato da un punto di vita cronologico, visto che le oltre 80 opere esposte, fra cui 50 quadri e poi terrecotte, bronzi e acquerelli, si concentrano solo sugli ultimi trent'anni di vita del geniale artista catalano (1893-1983). La mostra, aperta fino al 10 giugno e curata da Maria Luisa Lax Cacho, si giova della collaborazione con la Fundaciò Pilar i Joan Mirò di Palma di Maiorca. Quasi tutte le opere presentate sono successive al 1956, l'anno in cui Mirò riuscì a realizzare a Maiorca un suo grande sogno: un ampio studio immerso nel silenzio e nell'armonia della natura che è stato ricostruito in mostra per soddisfare la curiosità del pubblico. Del resto lui stesso amava paragonarsi a un giardiniere che getta tanti semi senza sapere quali riusciranno a fiorire, corrispondenti agli innumerevoli tentativi creativi che fa un artista. «Il quadro deve essere fecondo – ha scritto Mirò – Deve far nascere un mondo». Questa capacità di entrare nel cuore dell'universo naturale era particolarmente evidente nei capolavori distesi fra gli anni '20 e i '40, purtroppo non documentati dalla mostra attuale, che si concentra invece sul periodo in cui l'artista stabilisce una relazione dialettica con l'informale e l'action painting, pur conservando tutto il suo vitale candore. Ed è importante la sezione in cui si mette in rilievo la profonda passione di Mirò per grandi lavori di arte pubblica, come i murali ad esempio, in cui entrava in campo il rapporto fra pittura, artigianato e architettura, sull'onda della sua ammirazione per Gaudì. Ecco allora gli Schizzi per la pittura murale del Terrace Plaza Hotel di Cincinnati, per la pittura murale realizzata all'Università di Harvard o i disegni del Progetto per un murale per la sede delle Nazioni Unite a New York. Con il passare degli anni, Mirò conquista una sempre maggiore libertà tecnica ed esecutiva, che lo porta a dipingere a terra, a entrare nelle proprie tele, a usare un personale sgocciolamento del colore. E così l'artista che con il suo mondo metamorfico e originario aveva influenzato la nascita dell'action painting, in tarda età prende a sua volta ispirazione dalla gestualità di Franz Kline e dal dripping di Pollock, tragicamente scomparso nel 1956, l'anno in cui Mirò si trasferì a Maiorca. Un vero e proprio passaggio di testimone fra Europa e America, andata e ritorno. Col passare del tempo i suoi motivi prediletti di donne, paesaggi e uccelli si fanno sempre più astratti ed essenziali, con esiti vicini anche alle calligrafie orientali e alle pitture rupestri primitive. Ma restano sempre le tracce di figure sospese fra cielo e terra, legate ai miti archetipi del Mediterraneo e cariche di una forza primordiale. La mostra mette ben in rilievo anche il rapporto fisico dell'artista con le materie. Ossessionato dalla sperimentazione continua, Mirò amava infatti definirsi come un artista che «tenta di esprimersi con tutte le tecniche», dall'incisione all'acquerello, dall'assemblaggio oggettuale alla ceramica, solo per dirne alcune.

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