Cerca
Logo
Cerca
Edicola digitale
+

«Arte povera» ma non di idee ed illusionismo

default_image

  • a
  • a
  • a

Questabattuta di Germano Celant, teorizzatore di quel movimento poverista che dopo il futurismo ha riportato l'arte italiana sulla scena internazionale, ha aperto la strada con un pizzico di ironia alle grandi celebrazioni dedicate all'Arte Povera, nata nel 1967 fra Genova, Roma e Torino. Così l'avventura spesso appassionante e pionieristica di questo spiazzante movimento è raccontata proprio da Celant in un corposo volume «Arte povera - storia e storie» (Electa) che resterà come una tappa miliare per chiunque d'ora in avanti voglia occuparsene. Ma anche per chi desideri comprendere meglio il percorso di grandi artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelangelo Pistoletto, Emilio Prini e Gilberto Zorio. Per dirla con Celant, l'Arte Povera consiste essenzialmente «nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi». Ne viene fuori l'energia vitale dei materiali visti nella loro concretezza reale e mai rappresentati in modo illusionistico. Un esempio: i cavalli vivi di Kounellis, presentati nel 1969 nel garage occupato dalla galleria L'Attico di Roma, col cortocircuito fra natura ed universo meccanico. La contaminazione fra linguaggi diversi è svelata già dal nome di Arte Povera che Celant ha tratto dal teatro di J.Grotowski ed infatti tutti gli artisti del sodalizio lavorano per creare un'estetica senza limiti, che in qualche modo ha nel suo dna anche la ricostruzione futurista dell'universo e lo spazialismo di Lucio Fontana, muovendosi con la strategia della “guerriglia” nei territori di teatro, performance, fotografia, architettura. E così i “poveristi” hanno prediletto materiali non artistici, poveri e primari, naturali e artificiali: legno, pietra, linfa, terra, vegetali, stracci, plastiche, piombo, neon, sale, cuoio, fiori, scarti industriali. E hanno lavorato anche con fuoco, zolfo e ghiaccio. Come scrive Celant essi “di fatto hanno riportato all'attenzione l'esperienza delle cose. Hanno fatto riferimento a situazioni sensoriali e fisiche, dalla gravità alla crescita, che la condizione statica e cristallizzata dell'arte, alla fine degli anni cinquanta, aveva dimenticato».

Dai blog