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di Marco Patricelli È morta ieri a Berlino.

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Lacittà riunificata, tornata capitale di una nazione riunificata, che simboleggia la parabola umana e artistica di Christa Wolf. Una Volksdeutsche, secondo la terminologia del Terzo Reich, ovvero una tedesca di sangue che la storia aveva fatto nascere altrove, all'estero, ma in una terra che era sempre stata Germania. Landsberg an der Warthe era diventata Polonia da undici anni, quando Christa Ihlenfeld vedeva la luce il 18 marzo 1929; sarebbe tornata nel Reich quando lei aveva poco più di dieci anni, e poi riassegnata alla Polonia nel 1945. In mezzo Hitler, il Lebensraum, il Blut und Bloden, il sangue e terra. Una gioventù indottrinata a credere al trionfo della volontà e inghiottita nel crepuscolo degli dei. Oggi quella cittadina si chiama Gorzów Wielkopolski, e per la scrittrice tedesca la perdita della piccola patria, vista con gli occhi dell'adolescenza, era il primo strappo nella vita identitaria e di un'anima divisa in due dagli uomini e dalla storia. Lei profuga in un mare di persone sballottate dagli eventi verso ovest e incalzate dalla vendetta sovietica e da quella polacca. Guai ai vinti. Non passò il Piano Morgenthau sui destini della Germania da smantellare e riportare indietro nel tempo a nazione agricola, ma calò subito quella che Churchill definì subito «la cortina di ferro»: di qua l'occidente capitalista degli Usa superpotenza, Gran Bretagna decaduta e Francia gaullista miracolosamente imboscata tra le grandi; di là l'Urss di Stalin che trapiantava il comunismo nel cuore dell'Europa, lì dove Lenin aveva fallito. Christa, a 20 anni, cerca di tracciare la sua via sul nuovo, da far fiorire sulle macerie del nazismo, su quella Repubblica democratica tedesca che deve assicurare pace, giustizia e uguaglianza sociale secondo il credo che arriva dal Cremlino ma sulla punta delle baionette e col peso dei cingoli dei T34 dell'Armata Rossa. Nella Kultur tedesca, all'università, trova la linfa culturale. Si sposa giovane, con Gerhard Wolf, e il cognome del marito la accompagnerà fino alla morte. Il faro dei tempi è a Mosca, la nazione che i sovietici spacciano per «sorella» ma che è invece madre e matrigna delle esperienze socialiste nell'arcipelago dell'Europa centro-orientale. Chi può, chi ha coraggio, chi ha fortuna e anche spregiudicatezza, fugge da quella realtà che si voleva costruita faticosamente a misura d'uomo ma ingabbiando l'individuo. Il travaso delle braccia e dei cervelli è a senso unico, da est a ovest. Non sono e non possono essere solo le sirene del capitalismo e della ricchezza ad attrarre lontano dall'«altra» Germania, quella Ddr che suona sempre come la parente povera della rinascita tedesca con la cura da cavallo del Piano Marshall e dalla disperata necessità degli occidentali di farne l'argine alla tracimazione del comunismo. La storia sembrava ripetersi, ed evocava i fantasmi del 1918, con l'esito che tutti ormai conoscevano e vivevano sulla propria pelle. Christa Wolf intinge il pennino nel disagio: non giudica, disegna. Racconta il sistema e le ferite della divisione: non le cura, le disinfetta appena. Riceve premi, ha gratificazioni dal suo mestiere di scrittrice, è anche abile a dribblare le trappole di un moloch che entra subdolamente e oppressivamente nella vita degli altri, le condiziona, le emargina, le annienta se occorre. Forse non può dirsi ricca secondo i canoni occidentali, ma è sicuramente famosa. Reminiscenze proustiane legate all'infanzia, i messaggi universali e poliformi dei miti classici danno l'ossatura e i muscoli alle sue opere che non sono un monumento alla denuncia, ma la goccia che scava la pietra non potendo incrinare da sole il monolite scolpito da martello e compasso di Honecker. È la voce dell'alterità. Le tappe del suo percorso sono scandite dal romanzo «Il cielo diviso» (Der geteilte Himmel, 1963), con l'assegnazione del premio Heinrich Mann e una riduzione cinematografica realizzata l'anno dopo da Konrad Wolf; «Riflessioni su Christa T». (Nachdenken über Christa T., 1968), «Trama d'infanzia» (Kindheitsmuster, 1976), «Cassandra» (Kassandra, 1983), «Medea. Voci» (Medea. Stimmen, 1996). In mezzo, la storia si è presa la sua rivincita sgretolando quel muro e quella cicatrice berlinese, ultimo retaggio della seconda guerra mondiale e simbolo della guerra fredda. Il mondo sta cambiando, il mondo è cambiato. Con l'apertura degli archivi su di lei non potevano mancare le ombre del collaborazionismo all'onnipotente Stasi, l'apparato di spionaggio più ramificato di tutti i tempi. Chi ha visto il film «Le vite degli altri» ha un chiaro quadro di cosa fosse, anche se non ha letto nulla su una Germania in cui una metà della popolazione spiava l'altra e viceversa, dove anche parlare sottovoce era rischioso (ma anche in Italia si continua a discutere se Ignazio Silone fosse stato o meno un informatore dell'Ovra fascista). Tra le sue ultime opere «Un giorno all'anno. 1960-2000» (pagine di diario scritte ogni 27 settembre) e «Con uno sguardo diverso» (2005). Ha creduto nel socialismo, non ha mai rinnegato le idee e le utopie marxiste. Cinque giorni prima del crollo del muro e con lo sgretolamento della Ddr aveva rivolto un appello rimasto inascoltato a non abbandonare quella fetta di Germania: «Vi preghiamo, rimanete nella vostra patria, rimanete da noi». Lei era fuggita sotto la spinta dell'Armata Rossa che nel 1989 cominciava riprendere la via di casa.

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