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L'addio di Fossati Quando l'artista tace per sentirsi libero

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L'annunciodi Fossati di volersi ritirare (dopo il tour che passerà per Roma il 3 e il 4 febbraio) ha spiazzato, deluso, creato interrogativi. Ma davvero un artista può andare in pensione? Spegnere - mica come Vasco che si dimette da rockstar! - la musica che perennemente gli gira intorno, smettere di catturarne frammenti per tentare di metterli insieme nella prossima canzone? Davvero un poeta può cancellare le parole che gli si infiltrano nell'anima mentre guarda le cose? Per spiegare la sua decisione, l'ombroso cantautore genovese ha detto: «Voglio sentirmi libero di osservare il mondo senza essere costretto a fermare tutte le immagini per raccontarle». Suona più come una confessione di stanchezza - una resa - che non come una rivendicazione di libertà. L'artista che tace diventa un uomo affrancato dai propri doveri. Il mondo si aspetta da lui qualcosa, una nuova frase, un'invenzione, un'illuminazione? E la risposta è il diritto al silenzio. I maligni sussurrano che Fossati rinfoderi la chitarra perché abbia esaurito la sua vena, dopo quarant'anni tondi di onoratissima carriera: prima nei Delirium, poi nei dischi solisti, in mezzo mille regali d'autore e la collaborazione con De Andrè nelle opere più alte della musica italiana. I detrattori sostengono le loro tesi con l'evidenza delle ultime produzioni, non all'altezza dei capolavori. Chi lo ama, invece, ricorda che anche nei peggiori momenti, Ivano regala sempre due o tre perle: accade anche in questo "Decadancing", che se non fosse il suo ultimo disco meriterebbe un po' più della sufficienza e un po' meno di una promozione piena. Ma tant'è. Su dieci brani basterebbero la sublime, struggente ballata "Settembre" (nessuno come Fossati sa catturare il momento esatto in cui finisce un amore) o la malinconica, soave "Nella terra del vento": due meraviglie con cui altri vecchiacci camperebbero di rendita per le prossime stagioni, magari facendosi confezionare dalla casa discografica il classico triplo cofanetto natalizio con tutti i successi e un paio di inediti così. Lo "stanco" Fossati rischia invece di suo, e quest'album trova forza man mano che procede, finendo benissimo con il passo moderato e il respiro largo, inconfondibile di "Se non oggi" e la conclusiva, profetica "Tutto questo futuro" e la coda di piano che pare un lento calare il sipario. Il problema è che il cd parte in modo stentato, con il canzonettismo "intelligente" e impegnato di "La decadenza" (c'è quella chitarrina ritmica che un po' fa disco-retrò e che pare rubata a "Starman" di Bowie), e che anche dopo fatica a dare spazio alla declamazione pregnante di Ivano: qui i tempi sono troppo serrati, come se avesse voglia di dire tutto velocemente e poi finalmente salutare. Ma certi versi tagliano in due, come ne "La normalità", quando ricorda "i tempi delle stelle attorno agli occhi", o ammette che "nessuna strada, tranne una, corre verso casa, e lo farà per sempre". Torna in mente quando Fossati si calò nei panni del trasvolatore solitario Lindbergh e giurò di "voler fare tutta questa strada, fino al punto esatto in cui si spegne". Forse è giunto a quel punto. Come cantava in quello stesso brano, "difficile non è partire contro il vento, ma casomai senza un saluto". Ecco.

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