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La Trieste dai mille volti narrata dal ruvido Svevo

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diDINA D'ISA È insieme una biografia su Italo Svevo e una ricostruzione delle vicende e dei personaggi di una città mitteleuropea come Trieste. Questo il senso del libro di Giampiero Mughini, «In una città atta agli eroi e ai suicidi. Trieste e il caso Svevo» (ed. Bompiani, pagine 160 euro 15), che è stato ieri sera al centro del convegno a Cortina InConTra. Trieste è luogo di vicende drammatiche e di ferite ancora aperte nella Storia d'Italia, terra che ha dato i natali a Italo Svevo (di cui ricorre il 150° anniversario della nascita) e che fu scelta da James Joyce come patria d'adozione. Di questo e altro hanno parlato a Cortina Giampiero Mughini, Giorgio Pressburger, il fotografo Gianni Berengo Gardin, con il direttore di «Leggere Tutti» Giuseppe Marchetti Tricamo. Lungo le strade e nelle piazze affacciate sul molo Audace rivivono, attraverso il libro di Mughini, inediti ritratti di Joyce, di Svevo, di Slataper, di Stuparich, di Saba, di Pier Antonio Quarantotti Gambini e di Renzo Rosso. Ne emergono incontri umani e letterari sulle tracce degli uomini che hanno forgiato il carattere di una città cosmopolita, crogiolo di lingue, culture, etnie, dove si avverte la genialità di Svevo e il fascino di frontiera di un luogo fuori dal tempo, ma sempre attuale. Un destino difficile quello di Svevo che, nell'indifferenza dell'editoria, si è pubblicato a sue spese i romanzi: il successo arriverà dopo la pubblicazione de «La Coscienza di Zeno» (1923), anche se il lungo processo di divulgazione delle sue opere iniziò già nel 1907, con la promozione parigina di Joyce, maestro di inglese e primo estimatore di Svevo. Ma l'episodio più toccante che racconta Mughini nel suo libro è quello della sigaretta, l'ultima, che fu negata dal nipote a Svevo in punto di morte. Proprio a lui, che fumava «con la bocca, il corpo e l'anima». Un vizio che contagiò anche al suo personaggio, Zeno, e che gli costò la crisi cardiaca e la morte in seguito all'incidente automobilistico del '28. «Trieste è stata la città più europea tra l'800 e il 900 e Svevo è figlio di quell'epoca e di quel luogo - spiega Mughini - Svevo Parla tedesco perché non se ne può fare a meno a Trieste. Lavora a Londra, prima in una banca poi nell'azienda di vernici sottomarine del suocero, rispetta le regole del dare e avere a fine mese, legge gli autori tedeschi e poi si mette a scrivere. "Una vita" e "Senilità" sono pietre miliari del romanzo italiano moderno, due libri che nessuno capì. I critici dell'epoca erano ancora arroccati sull'italiano fiorentinizzante che non era quello di Svevo. Lui era triestino, mentre per i critici l'italiano buono era quello bagnato dalle acque dell'Arno. La vecchiaia era per Svevo l'unica cosa seria che gli fosse accaduta. La sua riflessione più amara emerge quando racconta, nella novella (postuma) del "buon vecchio e della bella fanciulla», come l'anziano non abbia più chance con le giovani. È il dramma del vivere: ogni giorno vissuto è un giorno in meno».

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