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L'Olimpico respinge le dimissioni di Vasco

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Dai, stavolta Bersani l'ha detta giusta. Quando gli hanno chiesto delle «dimissioni» di Vasco dal ruolo di rockstar, il segretario del Pd ha commentato: «Figurati se si ritira. Ci credo come credo alla possibilità di un governo di emergenza». E PiGi è uno che si picca di capirne: di musica, ovvio. Tre anni fa, quando si trattava di lanciare Red, la tv satellitare della sinistra, sottolineò l'intenzione di intervistare personalmente l'eroe di Zocca. Due leader a confronto, l'uno destinato a ispirare l'altro: non a caso, quando tre mesi fa ha giubilato per la propria permanenza alla guida dell'opposizione, Bersani ha citato il signor Rossi: «Io sono ancora qua». Eh già. E lui, il Blasco? Mentre cala la notte sopra l'Olimpico, i fedelissimi cercano un vaticinio fra le nuvole. Del resto, il primo appuntamento capitolino del tour "Kom Live 2011" è il test probante dopo il ferale annuncio di volersi dedicare ad attività meno sfiancanti della sistematica occupazione degli stadi: magari suonicchiare con gli amici in un qualunque Roxy Bar, o impancarsi a maestro d'arte, uno che insegni al colto e all'inclita i segreti della canzone d'autore. A occhio, una via di mezzo tra il musicologo e il bardo appenninico. Ma stasera nessuno fra gli adoratori ha voglia di dispiegare i paramenti del lutto: e sotto un cielo che promette sfracelli si predispongono a una liturgia profana che stavolta è davvero diversa dal solito. Perché, di tournèe in tournèe, sono cinque lustri che Vasco si mobilita sul fronte del palco (e quello di stasera è vertiginoso, slanciato com'è per oltre cinquanta metri in altezza, un mausoleo hi-tech la cui verticalità sembra racchiudere sogni ed illusioni), ed è sempre stata pura celebrazione: come un amico al quale chiedi di accennare quel suo imperdibile inno, e poi quell'altro, e certamente non può mancare quell'altro ancora, e via via sgranando tutti insieme l'antirosario della vita spericolata, con lui che davvero potrebbe pure andarsene, a un certo punto della serata, o mimetizzarsi in curva per vedere l'effetto che fa: tanto ci pensano 65mila sodali a cantare al posto suo, in coro e a squarciagola. Se la «base» rockettara avesse un peso non solo consultivo, le dimissioni di Vasco verrebbero respinte per acclamazione, con un plebiscite più bulgaro di quello ottenuto da Angelino alla segreteria del Pdl. Glielo dicono in tutti i modi, i fans del concerto romano: glielo urlano, glielo scrivono negli striscioni. Pretendono che resti nella sua gabbia imperiale, a prescindere dalle linee guida di un programma emotivo che sancisce il passaggio dal giovanilismo puro e determinato del Nostro, alla sua accettazione dell'incombente senilità. Ha sessant'anni, sostiene di non sentirsela più. Eppure i Rolling Stones viaggiano sopra i settanta, e se è per questo pure il Cav, con il suo Bunga Bunga spudoratamente rock. Il fatto è che il signor Rossi non sa più come cavarsi di dosso i panni di portavoce di due o tre generazioni: un paradosso assoluto, lui che dagli anni Ottanta rivendica l'autodeterminazione allo sbandamento, a un compiaciuto nichilismo, a una vita che non è mai tardi e che se ne frega di tutto, si è ritrovato per tanto, forse troppo tempo a dover parlare in nome e per conto di milioni di ragazzi ed ex ragazzi inquieti, con il rischio di dire o fare la cosa sbagliata nel momento sbagliato. Come gli è accaduto qualche giorno fa, quando ha rivendicato il diritto «di guidare ubriachi, mentre le leggi che lo proibiscono sono una vergogna». Una solenne, indifendibile minchiata, di quelle che non si perdonano neppure ai poeti, figurarsi a un opinion-maker consolidato, a un formidabile battutista e a un Vate laico come lui. Stavolta parla di sicurezza e dice «poi magari alle vostre madri dicono che non siete morti ma in questura». Questo, si diceva, contrariamente agli altri non è uno spettacolo celebrativo: in due ore e mezzo in cui gira la poderosa macchina del suono (come sempre una nota la merita il chitarrista Stef Burns, fresco sposo di Maddalena Corvaglia), magna pars è il nuovo album "Vivere o niente", che nel titolo sembra un manifesto dei vecchi tempi («non dobbiamo vivere così così», e pare un beffeggiamento criptato verso il rivale di sempre Ligabue; «non fatevi fottere, siete i più belli, io e voi abbiamo una comunione spirituale collettiva»), ma poi dietro la furia muscolare e i proclami ci leggi un'estenuazione dello spirito, un ripiegamento della volontà che Vasco conosce da almeno dieci anni (da quando, ha raccontato, fu colto da una devastante crisi di mezza età), e che è stato ben rappresentato anche nel penultimo album "Il mondo che vorrei", o in canzoni divenute già classiche come "Un senso". È un Vasco che pare quasi un personaggio sveviano, questo, e fa persino tenerezza nella sua nuova, presunta fragilità. E quando, quasi a fine serata, si avventura in gloriosa solitudine in un medley acustico, capisci che davvero quell'omino ha paura di qualcosa, malgrado l'affetto incondizionato della sua gente. Forse è questo cielo fosco, forse è la necessità di rallentare il passo. «Siamo soli», aveva intonato poco prima. Lui più di altri. Si ritirasse sul serio, sarebbe una lezione morale. Ma occhio: su «Albachiara» saluta dicendo «alla prossima». E dunque...  

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