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Giorgio Nisini, "Ritorno alla coscienza"

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Giorgio Nisini

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{{IMG_SX}} "La città di Adamo", edito dalla casa romana Fazi, è tra i dodici romanzi candidati al premio Strega. La cinquina verrà scelta il 15 giugno a Roma, nella sede della fondazione Bellonci. Il romanzo di Giorgio Nisini sarà presentato domani (ore 19) al Macro di via Nizza 138. Con l'autore interverranno Alberto Bevilacqua e Stas' Gavronski.   Giorgio Nisini ha avuto fin qui un terreno in discesa verso lo Strega. Tra i dodici candidati al «più importante premio letterario italiano» (lo chiama così) è entrato senza tormenti. Il suo romanzo, «La città di Adamo» (storia di un importante imprenditore agricolo annientato moralmente dal dubbio che l'azienda ereditata dal padre abbia sfondato col sostegno della camorra) non ha dovuto aspettare l'editore che lo apprezzasse. Fazi, la casa romana che lo pubblica, attendeva con impazienza la parola fine. E da subito ha deciso di portarlo allo «Strega». Così il viterbese Nisini - professore universitario di sociologia della letteratura, saggista, editor per Perrone (che nel 2008 gli pubblicò il primo romanzo, «La demolizione del Mammut»), e pure agricoltore per diletto della propria tenuta - si trova in gara. Oltretutto con un'opera che ha avuto lusinghieri giudizi bipartisan. Eppure, Nisini, La città di Adamo avrebbe potuto fare una lunga anticamera. Non appartiene ai generi che gli editori cercano. È un romanzo psicologico, pone interrogativi morali. Non mi considero un autore di genere. Da lettore mi hanno sempre interessato gialli psicologici, narrazioni percorse da inquietudini esistenziali. Ma di fatto rielaboro fuori dai generi. Il mio è un giallo, sì, ma senza sangue. E infatti il protagonista, Marcello Vinciguerra, indaga sul passato del padre che all'improvviso gli sembra l'opposto dell'uomo rigososo e retto che lo ha cresciuto.  Marcello è il detective di se stesso. L'indagine mi interessa perché è cammino di consapevolezza. L'uomo tenta di conoscere la realtà. Forse ci riesce, forse fallisce. La seconda soluzione è per me la più stimontante. Scava nell'ambiguità, nelle zone d'ombra. Il marcio che lo ossessiona risale agli anni Settanta, quelli dell'impennata degli affari, del boom edilizio. Oggi il malaffare è aumentato? Diffido delle visioni catastrofiste contemporanee. La storia dell'uomo è contrappuntata dalla corruzione. No, la mia non è una visione degenerativa. Siamo attratti biblicamente dal male e il conflitto tocca problemi etici. Ma il presente non è peggio. Forse cambia il modo con cui la società affronta il nodo. In Italia la congiuntura politica tratta in un certo modo la questione morale. Però generalizzare è fuorviante. L'hanno accostata a Saviano e lei ha preso decisamente la distanze dallo scrittore-guru. Il background della camorra è un pretesto. Volevo raccontare una storia che ruotasse attorno al male, al bivio tra legalità e illegalità. Non per fare il manicheo, distinguere i buoni dai cattivi. Piuttosto per chiarire che negli individui prevalgono le zone grigie, come disse Primo Levi. E che la vita si nutre di compromessi. Chi si compromette più col male, chi col bene. Però tutto questo magma lo indago da scrittore, non da giornalista. Facendo narrativa, non inchiesta. Il Premio Strega è terreno di compromessi? Sarei ipocrita se dicessi che non sono contento di partecipare. Vivo la faccenda con orgoglio e felicità. Però anche con distacco. Quello che dovevo fare, da scrittore, l'ho fatto. Non scendo a compromessi. Guardo, aspetto che cosa succede. Ma se vincesse per la quinta volta Mondadori, che direbbe? Non lo so. Desiati, il romanziere in lizza per il gruppo di Segrate, ha qualità. E anche gli altri miei avversari sono buoni. Pur non essendo famosi. Il Premio dovrebbe promuovere esordienti talentuosi o i mostri sacri? Né gli uni né gli altri. Dovrebbe vincere il migliore. Secondo un criterio qualitativo, non generazionale. E guardi che non sono né esordiente né affermato.  La città di Adamo è presentato da Giuseppe Leonelli e Massimo Onofri. Glielo ha chiesto lei? No, non fa parte del mio carattere. Però li conosco bene. Leonelli fu il mio relatore nella tesi di dottorato, nacque da lì la stima nei miei confronti. Onofri insegnava a Viterbo, nel liceo scientifico che frequentavo io. I suoi libri mi hanno fatto avvicinare alla letteratura. Lei crede in Dio? Domanda complicata. Non so rispondere a me stesso, non so rispondere agli altri. Ho avuto un'educazione cattolica, e una crisi durante l'adolescenza. Un nodo ancora irrisolto. Saggista e poi narratore. Come mai il passaggio? Forse la domanda dovrebbe essere come si fa a passare dal romanzo al saggio per poi tornare al romanzo. Ho cominciato con la narrativa da ragazzo. Ho appena ritrovato certi fogli scritti a macchina quand'ero sui banchi delle medie. Una romanzo tipo ragazzi della via Pal, scorrerie con amici di cortile. Ho continuato anche al liceo. Testi per canzoni rock. Poi altri tentativi, da universitario. Insomma, la scrittura narrativa è sempre stata la mia officina. Lo scrittore è come un musicista, può cambiare strumento ma lavora sempre con la parola. Lo hanno fatto anche i grandi del Novecento, come Pasolini e Calvino. E tra i grandi, chi preferisce? Ho amato molto Beppe Fenoglio. Per il ritmo narrativo, la capacità di raccontare. Ma mi influenzano anche altre forme d'arte. I dipinti per esempio. E infatti la Città di Adamo, che è appunto il camorrista che ha fatto costruire un quartiere a ridosso di Caserta, c'è la suggestione della pittura metafisica. Mi intrigano De Chirico, Hopper, Marco Verrelli, che mi ha disegnato la copertina. Poi tengo d'occhio il cinema. Mi piace il suo linguaggio, la tecnica di girare scene e poi montarle. Come ha lavorato sullo stile? Non è ridondante, né povero. Ed è stato evocato il realismo metafisico. Sono un artigiano della scrittura. Lavoro tanto sulla parola. Certi giorni tutto scorre velocemente, altri tiro fuori una pagina con fatica e poi non mi piace più. La ricerca del termine giusto, dell'immagine giusta mi impegna 24 ore su 24, anche quando non sono alla scrivania. Lei scardina i personaggi. Marcello Vinciguerra cerca chi è il padre, oltre le apparenze. E non sopporta più la moglie, arredatrice snob. Già, l'apparire. La sottotraccia del libro è l'universo del design e dunque il rapporto con gli oggetti. Ne subiamo l'attrazione, insieme con l'impulso ad acquistare continuamente. E siamo preda del marchio, che ci sovrasta. Una scrivania, un paio di scarpe non sono nostre, ma di chi le ha prodotte. Incapaci di possedere fino in fondo le cose, viviamo un'ulteriore ambiguità.

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