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Il coraggio di Attilio Piccioni

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Significamolte altre cose: per il magistrato libertà dal bisogno, dalla paura, dalla pressione eccessiva e faziosa, dalla stampa, da una certa malsana frettolosa curiosità, dalla suggestione operata dalle folle eccitate o, per propri fini, dai partiti politici. Questa libertà in qualche circostanza noi crediamo che in questa vicenda possa essere mancata. Credo che questo tentativo di deviare, di fuorviare, di influenzare, di premere, qualche volta fissando finanche le date entro le quali determinati atti giudiziari si sarebbero dovuti compiere, vi sia stato, e ripetutamente". Che cosa è? Il passaggio del discorso di qualche deputato del centrodestra in un dibattito più o meno recente, diretto o di sbieco, su qualcuna delle numerose vicende giudiziarie di Silvio Berlusconi? No. Dovete andare più indietro. Che cosa è allora? Il passaggio di uno dei tanti discorsi pronunciati nella più breve e infausta delle sedici legislature repubblicane, quella che tra la primavera del 1992 e l'inverno del 1994 fu terremotata da iniziative giudiziarie? No. Dovete andare ancora più indietro per fermarvi addirittura al 1954, cioè a ben 57 anni fa. A pronunciare quel discorso, a fine settembre, fu l'allora capogruppo della Dc Aldo Moro nel dibattito preteso dai comunisti, con il sostegno dei socialisti, per fare un processo politico su sfondo giudiziario ad uno degli esponenti democristiani allora più autorevoli e temuti dalle sinistre. Che era Attilio Piccioni, dimessosi il 19 settembre da ministro degli Esteri per il drammatico coinvolgimento del figlio Piero, noto ed apprezzato musicista, accusato di omicidio colposo per la fine misteriosa della povera Wilma Montesi: una ragazza trovata morta sulla spiaggia di Torvajanica l'11 aprile dell'anno prima, vigilia di Pasqua. Quel dibattito alla Camera, preceduto da analoga discussione al Senato, fu concluso dall'allora presidente del Consiglio Mario Scelba con un monito a Pietro Nenni ancora attuale: "L'articolo 27 della Costituzione, che stabilisce la responsablità penale e la presunzione d'innocenza per l'imputato fino alla sentenza definitiva, non è un sentimento che Ella può rispettare o non rispettare, ma una norma giuridica positiva, che nel suo valore morale esprime la differenza esistente fra un regime politico di libertà e un regime di dittatura". La famiglia Piccioni non dovette peraltro aspettare molto, almeno rispetto ai tempi di oggi, per vedersi riconoscere il torto subìto. Il processo, che si aprì il 21 gennaio del 1957 nella sede neutra di Venezia, indicata dalla Cassazione per sottrarlo ai condizionamenti ambientali della Roma politica, si concluse in quattro mesi, il 28 maggio, con la piena assoluzione di Piero Piccioni. A riprorre la drammatica attualità di quelle denunce e di quei moniti sull'uso distorto della giustizia, a fini di lotta politica, è un poderoso libro biografico su Attilio Piccioni scritto per le edizioni Liberal da Gabriella Fanello Marcucci (pagine 521, euro 22): poderoso per la quantità e la precisione della documentazione dalla quale l'autrice ha saputo attingere. Ad Attilio Piccioni, nato il 14 giugno del 1892 a Poggio Bustone, nel Reatino, e morto a Roma il 10 marzo del 1976, il volume restituisce per intera la dimensione di "un padre della Repubblica", come dice il sottotitolo, valorizzando nel titolo il merito di quella "Scelta occidentale" che aveva contribuito con Alcide De Gasperi a far compiere dalla Democrazia Cristiana, dopo avere partecipato alla sua fondazione, reduce da una già lunga militanza nel Partito Popolare di don Luigi Sturzo e da un ostinato, lineare antifascismo. La vicenda Montesi, che l'autrice chiama "il fattaccio", occupa solo 21 pagine, meno del 5 per cento del libro. Ma sono quelle che per prime viene spontaneo di leggere a chi si occupa di politica. Ed ha avuto anche la fortuna di conoscere Piccioni, di parlargli, di raccoglierne le arguzie sino agli ultimi giorni in cui l'anziano leader preferiva frequentare la Camera, per quanto fosse allora senatore. La sintesi di quel fattaccio è perfetta. Ma mi permetto di essere nelle conclusioni ancora più duro ed esplicito dell'autrice. Piccioni fu la vittima di qualcosa tra una lunga congiura e un colpo di Stato perché, prima ancora di dimettersi nel 1954 da ministro degli Esteri, egli era stato già estromesso con quel fattaccio dalla successione ad Alcide De Gasperi. Per la quale aveva invece le carte più pulite da giocare, essendogli stato vice presidente del Consiglio e, prima ancora, segretario del partito nella storica stagione delle elezioni politiche del 18 aprile 1948, vinte alla grande dallo scudo crociato contro il "fronte popolare" dei comunisti e socialisti. Fu proprio a Piccioni che dopo le elezioni del 1953 l'allora capo dello Stato Luigi Einaudi conferì il 2 agosto l'incarico di presidente del Consiglio, fallito il tentativo di De Gasperi di ottenere la fiducia parlamentare con il suo ottavo governo. Dopo dieci giorni Piccioni rinunciò improvvisamente al mandato. Si disse e si scrisse di veti posti dal Psdi di Giuseppe Saragat su alcuni nomi della lista dei ministri predisposta da Piccioni, ma in realtà egli si tirò indietro perché già ferito nelle precedenti settimane dalle prime indiscrezioni e allusioni giornalistiche diffuse da sinistra contro il figlio per la morte della Montesi. Il fuoco fu riattizzato dopo le elezioni del 1953 con un intreccio rivoltante di falsi memoriali presi purtroppo in considerazione anche dall'allora ministro dell'Interno Amintore Fanfani. Che per caso, guarda un po', sarebbe diventato il successore di De Gasperi l'anno dopo alla segreteria del partito. E sarebbe più avanti diventato anche capo del governo. Con il quale Piccioni molto cristianamante accettò di collaborare fra il 1960 e il 1963 nel ruolo di vice presidente del Consiglio, come aveva già fatto con De Gasperi.

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