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La riscossa dei Capitan Fracassa

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diMARIO BERNARDI GUARDI «Noi crediamo all'autonomia dell'arte; l'arte per noi non è il mezzo, ma il fine; ogni artista che si propone un'altra cosa che non sia il bello, ai nostri occhi non è un artista». Così parlò - a metà Ottocento - Théophile Gautier, inizialmente pittore ma ben presto convertito alla letteratura e alla poesia. E convinto alfiere di un'arte che «non servisse a nulla» e della sola bellezza fosse paga. Alla faccia degli intellettuali variamente «impegnati» che vedevano il miglioramento della società come obiettivo delle loro opere. Ma Gautier, al pari dell'amico Baudelaire, insieme a lui futuro nume tutelare della poesia parnassiana e dell'estetica decadente, credevano che la «rivoluzione» potessero farla solo gli spiriti eletti, quelli che non solo sfidavano il tetro conformismo dei conservatori ma non si lasciavano attrarre dal canto delle sirene progressiste. Si trattava di difendere la libertà dello spirito, la creatività e l'immagine dell'individuo di eccezione, che persegue il raggiungimento dello «stile». La forma deve essere la norma. L'importante è essere fedeli al proprio rango, qualunque sia la parte che interpretiamo. E termini come «parte» e «interpretare» sono più che appropriati nel caso del barone di Sigognac, protagonista di «Capitan Fracassa», il romanzo che Gautier pubblicò a puntate, dal dicembre del 1861 al giugno del 1863, sulla «Revue National et Etranger». Come è noto, il gentiluomo, ultimo rampollo di una nobile e decaduta stirpe, vive in un desolato castello della Guascogna, in compagnia di un vecchio servitore, di un ronzino e di un gatto. I giorni scorrono in un'amara inerzia fino all'«irruzione» di una compagnia di comici che viene a chiedere ospitalità. Il barone li accoglie e decide poi di seguirli, in cerca di fortuna. Nell'attesa, che male c'è a fare il comico? Quello che interpretava il Matamoro è morto: bene lui lo sostituirà nei panni di Capitan Fracassa. Ovvero di una maschera della Commedia dell'Arte che, nata nel '500, ma con fior di antenati in Plauto e in Terenzio, incarna il tipo del soldataccio spaccone e smargiasso, ma in realtà pavido e vile, che annuncia sfracelli a dritta e a manca, ma che alla fine è costretto a ingloriose ritirate. Questa, la «maschera» di Capitan Fracassa; ben altro il «volto» di Sigognac, che, al di fuori del palcoscenico dove fa il buffone, nella vita si comporta da perfetto gentiluomo. Che il destino finisce col premiare. Infatti, tra venture e sventure, innamoramenti e duelli, fraintendimenti e riconoscimenti, equivoci ed agnizioni - come da copione - alla fine, e sempre conservando intatti dignità e valore, il Nostro vedrà realizzati tutti i suoi sogni: l'amore e un ritrovato «ruolo» sociale (grazie anche alla provvidenziale scoperta di un tesoro nella fatiscente avita dimora). L'attività artistica di Gautier fu tra le più poliedriche. È stato lui a sfruttare per primo il termine «Avatar» per un romanzo breve pubblicato nel 1857. Ben prima di James Cameron, Gautier sigillò uno splendido romanzo intitolandolo proprio come il film che ha spopolato due anni fa sugli schermi di tutto il mondo. Si dedicò anche alla scrittura di libretti per balletti, tra i quali il più celebre è quello di «Giselle», danzato all'Opéra il 28 giugno 1841 con un successo straordinario. Ora, al di là del doveroso tributo alla «scrittura» di Gautier - che, per dirla con Flaubert «è una meraviglia di stile, di colore e di gusto» - va detto anche che il romanzo diventa sempre più attuale. Siamo circondati dai Capitan Fracassa: se un volto c'era, la maschera l'ha cancellato. In ogni caso, l'assalto al cielo è garantito. Insieme al gran chiasso. Quanto ne hanno fatto, ne fanno, ne faranno ancora il Grillo Sparlante, il Tonino Questurino, il Sarkozy in Bruni, lo Zorro Zapatero e via fracassando!

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