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Mekong, il fiume del destino

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diMARINO DE MEDICI Avvertivo un senso di déjà vu e questo era normale. Al tempo stesso, si affacciava dentro di me un senso di trionfo personale non tanto per il fatto che ero sopravvissuto così a lungo, ma perché ora il destino mi permetteva di guardare con tranquillità e appagamento ad un possente fiume che tempo addietro incuteva paura. Le acque torbide del Mekong scorrevano lentamente dinanzi ai miei occhi sotto l'esile banda dell'imbarcazione. Erano passati quarantadue anni da quando navigavo su quel fiume, nel delta del Vietnam, dove ero andato in giovane età come inviato de Il Tempo, per scrivere di una guerra che avrebbe lasciato una profonda ferita nella storia e nella coscienza dell'America. Ma ora mi trovavo molto più a monte in quel fiume, nel Laos, un Paese passato a sua volta alla storia come teatro di pesanti operazioni clandestine ed in modo speciale per il famoso sentiero di Ho Chi Minh che lo attraversava ai margini, alimentando le unità nord-vietnamite ed i Vietcong nel Vietnam del Sud. La giungla che lo nascondeva era bersaglio costante di massicci bombardamenti e del micidiale diserbante Orange. Mi veniva quindi di riflettere sulla guerra e la pace, e quarantadue anni tra di esse, mentre sprofondato su una comoda sedia in una barca turistica risalivo il corso del Mekong a nord dell'antica capitale laotiana, Luang Prabang. Quarantadue anni prima ero a bordo di una Alpha Boat, con tanto di elmetto e giubbotto antiproiettile, aggrappato ad una mitragliatrice di calibro 50. Le imbarcazioni da pattugliamento del Mekong erano veloci, ma gli scafi di alluminio e fibra di vetro le rendevano quanto mai vulnerabili al fuoco nemico. Bastava che un razzo vietnamita RPG-2 le centrasse per polverizzare l'imbarcazione ed i quattro uomini di equipaggio. Oltre a pattugliare il fiume e la fitta rete di canali, ispezionando sampan ed altre barche sospette, le Alpha Boat venivano impiegate per attirare il fuoco dalle rive dei canali rivelando in tal modo le postazioni nemiche. Gli elicotteri d'attacco arrivavano sul posto nel giro di pochi minuti. La consapevolezza di una tale missione, che faceva della Alpha Boat un bersaglio di comodo, mi rendeva alquanto nervoso. Essere giovane e correre un rischio vanno a braccetto. La guerra può generare paura e eccitamento al tempo stesso. Quando viene la pace, tutto cambia rapidamente. Il Mekong era allora ed è tuttora la regione più popolosa del Vietnam. Più di quaranta anni fa, le vie d'acqua erano le uniche possibilità di trasporto. La regione è ancor oggi il bacino del riso del Vietnam, ma adesso esistono strade, e persino un ponte, aperto l'anno scorso per collegare Can Tho alla provincia di Vinh Long. L'acquacoltura è arrivata alla grande nel delta; pesci gatto e gamberi vengono esportati in grandi quantità. I gamberi soprattutto sono quanto mai appetiti in America. I ferry sconquassati del passato hanno ceduto il passo a battelli potenti che percorrono in lungo e largo il Mekong. Il Mekong oggi fornisce molto più che cibo per sopravvivere, è una vera fonte di ricchezza. Gli americani non portano più armi ed elmetti, ma berrettini da baseball e macchine fotografiche. Le foreste rappresentano ovviamente una grande risorsa ma il governo laotiano ha varato una serie di misure per frenare la deforestazione, al contrario del Vietnam dove le foreste sono state abbattute per oltre il 50 per cento per favorire l'espansione dell'agricoltura. Non posso che pensare al tempo in cui tra le priorità delle forze americane nel Vietnam c'era quella di distruggere la copertura delle foreste con bombe, napalm e il nefasto Agent Orange. Con interesse che si fa via via più acuto osservo il giovane pilota dell'imbarcazione mentre schiva le rocce che affiorano nel mezzo del fiume. Non ci sono canali nei quali avventurarsi alla ricerca dei Viet Cong. Si scorgono soltanto banchi di sabbia e ripe scoscese e ai piedi dei villaggi, piccole flotte di battelli fluviali a fondo piatto per la pesca e i trasporti. I tradizionali fuoribordo montano un sistema di propulsione che crea uno spruzzo di acqua a coda di gallo. È una vista che mi riporta al delta vietnamita con le sue barche di legno dalle estremità piatte. Ma ora i battelli si son fatti più grandi e più lunghi, e la fibra di vetro sostituisce sempre più il legno. Mi dicono che a Can Tho, la principale città sul delta dove ho passato vari giorni durante la guerra, ci sono adesso pescherecci d'alto mare. Come tutti i mercati asiatici, quelli di strada a Luang Prabang riservano piacevoli curiosità a chi li percorre. Il pesce del Mekong in vendita è abbondante: corpose carpe fluviali, gigantesche razze (sting ray) e pesci gatto lunghi più di tre metri. Al calar della sera, si animano i tendoni del mercato artigianale, con articoli di seta sgargiante e manufatti tradizionali, e gli inevitabili falsi d'antiquariato. I monaci nelle loro tonache rossicce vivono in numerosi monasteri e scendono in città di prima mattina per chiedere elemosine ricevendo offerte di riso e frutta. Lungo la riva del fiume Nam Khan, che confluisce nel Mekong all'estremo della città, è sorto un gran numero di alberghetti e di eleganti rest houses. Le rive dei due fiumi sono ricolme di orti con verdure e granturco. Piante di arachidi popolano i banchi di sabbia lungo il fiume. È una visione pacifica in un luogo certamente incantevole. Quasi inconsciamente, il mio pensiero torna per un attimo ai giorni in cui cercavo disperatamente di riposare nella mia cuccetta sulla nave appoggio Benewah, ancorata nel delta vietnamita. Il frastuono delle operazioni navali, dai rotori degli elicotteri al rombo dei motori diesel delle Alpha Boat e dei battelli corazzati Monitor, e di tanto in tanto l'eco di esplosioni, non me lo consentivano. Adesso, è il placido rintocco delle campane dei templi di Luang Prabang a conciliarmi il risveglio all'alba. Come un colpo di magia sui miei sensi, quel suono gentile finalmente cancella l'incubo di una guerra di cui fui testimone sullo stesso Mekong.

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