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segue dalla prima di MASSIMILIANO LENZI Tre appunto, anche se una ce la siamo dimenticata.

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Bastòuna frase: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica e utilitaria”. Di lì a poco, tredici anni dopo, quella rivoluzione fatta di parole e d'arte si vedrà sovrastare dall'azione di Benito Mussolini e dalla sua marcia su Roma. Impero, di bischerate e di infami leggi razziali. Comunque, a suo modo, una rivoluzione. E siamo a due. La terza, dunque, dove sta? Beh, la terza è più recente ed è una rivoluzione visiva, per gli occhi, anzi tele-visiva, da guardare in lontananza: il suo nome è tv commerciale. Nel 2010 segnato dalla crisi politica del centrodestra, dalla resa dei conti – senza esclusione di colpi – tra Fini e Berlusconi, la tv commerciale, pardon Canale 5, l'emittente che più di ogni altra ha segnato le fortune del Cavaliere catodico, ha compiuto 30 anni. In silenzio. Ma noi li vogliamo ricordare. I più vegliardi e “rouge” tra gli italiani si chiederanno: ma il Sessantotto, dove lo mettete? Quella sì che è stata una rivoluzione di costume, di abitudini, di vita. La liberazione della donna, la consapevolezza, la presa di coscienza. E tutto il resto. Sarà… ma per noi quella rivoluzione del '68 si incarna nella mondanità della televisione commerciale con le sue libertà del privato ed i suoi piaceri da guardare e da rivendicare come liberazione: resta la tv berlusconiana il meglio della “fantasia al potere” e non è un caso che molti dei chierici che “penseranno”, negli anni Ottanta e Novanta, la televisione commerciale saranno uomini e donne di sinistra. C'è una frase di Silvio Berlusconi, pronunciata nel 1981 in un'intervista a Tv Sorrisi & canzoni che più di ogni altra definizione ritrae l'idea stessa della televisione commerciale, la sua ontologia più intima, profonda. Gli domanda l'intervistatore: “Ha acquistato il Wct di tennis, l'Open di golf, le finali di football americano. Perché tanto sport nella sua rete televisiva?”. “Pensiamo – gli risponde il Cav. – che allo sport debba essere dato molto spazio: non meno che allo spettacolo. La gente sta diventando, anche psicologicamente, troppo sedentaria. Vediamo di stimolarla all'agonismo. Non crede che questa può essere una risposta all'aggressività che cova negli animi?”. Lo struggle for view, ecco la nostra terza rivoluzione nazionale. Del resto il futurismo, che aveva disarticolato il linguaggio facendo implodere la sintassi tradizionale, “zang tumb tumb”, cos'era se non l'azione applicata alla parole? L'azione, le reti commerciali del Cavaliere, anziché al parlato l'applicheranno al visto, movimentando sul video cosce e belle donne, satira - che in Rai, almeno nella Rai dei fine Settanta e primi Ottanta era ancora mogia - serial e sceneggiati di narrazione americana, giochi, ricchi premi, consumi, libertà e cotillon. Siamo nell'Italia che scollina gli anni Settanta, con quelle cappe di piombo e di violenza ancora avvolte negli occhi di studenti, operai, lavoratori, imprenditori. Insomma della gente che ha vissuto una stagionaccia, dove persino andare al ristorante – nelle grandi città – poteva comportar qualche rischio fisico. La tv commerciale, con il suo linguaggio spregiudicato e le sue immagini senza tabù, sarà per quella società italiana che ha voglia di divertirsi e di tornare a giocare – dimenticando la via crucis del terrorismo e delle stragi - come una finestra che torna a riaprirsi dopo che è rimasta serrata troppo a lungo. Tra il cattolicesimo democristiano che mette le braghe alle sorelle Kessler e il rigore del Pci, si fa strada dunque l'edonismo. C'è stato quello reaganiano (di cui il serial tv Dallas, sarà, tra la fine dei Settanta e gli anni Ottanta, quando il Texas diventa la valle dell'oro nero, un ritratto di cattiveria e agonismo spregiudicato), è vero, ma in Italia ci sarà quello craxiano e socialista. Modernizzante. Per questo, nei 30 anni di Canale 5, al di là del dato anagrafico e puramente di ricorrenza c'importa ma non troppo, si concentra in realtà l'ultima rivoluzione italiana. Trent'anni di tv commerciale e sentirli tutti, oggi che il video è cambiato ma gli italiani lo guardano ancora. Eppure quella tappa avanguardista, della sfida al catodico di Stato, di Dallas e di Uccelli di Rovo, col prete appassionato (di donne), del calcio come metastoria collettiva (ricordate il Mundialito?), resta una delle rivoluzioni di costume che più hanno mutato le abitudini di un Paese cattolico e perbenista. La memoria di questa rivoluzione non è certo un libro o un manifesto come per il futurismo. Non è la testimonianza di atti politici ma – più banalmente – è una videoteca dove si affastellano i palinsesti di un passato ancora troppo giovane per non essere vecchio e troppo vecchio per non essere infantile. Era il 30 settembre del 1980 quando il logo di Canale 5, frutto della fusione di cinque emittenti del nord Italia (TeleMilanocavo, A&G television, VideoVeneto, TeleTorino, Tele Emilia Romagna) sotto la regia di Silvio Berlusconi, compare e inaugura le sue trasmissioni. Un debutto in sordina, se volete, ma a TeleMilano – caspita! - lavorava già, da un po' di tempo, Mike Bongiorno che conduceva il programma I sogni nel cassetto, con il signor no Ludovico Pellegrini e la valletta Fabrizia Carminati. Quel debutto televisivo “federale”, cioè frutto della sinergia tra alcune emittenti regionali che si uniscono, diventerà un format a ripetere del bongiornismo sulla tv commerciale. Cos'era, in fondo, I sogni nel cassetto? 20 milioni in gioco, da accaparrarsi (come per Lascia o Raddoppia?) in 4 puntate. A giocarsela delle coppie, marito e moglie, babbo e figlio e via coi binomi, che dichiarano il loro sogno nel cassetto da realizzare e sperano di beccarsi il montepremi. Ma non facciamoci ingannare dalle apparenze. A parte il montepremi, per l'epoca davvero ingente, compare a girar nello studio una donna, giovane, alta, bella. Si chiama Fabrizia Carminati ed è molto più di una canonica valletta. È un sogno, simile com'è alle bellezze dei fotoromanzi. Di sogni, dal cassetto degli italiani, Canale 5 ne tirerà fuori tanti e molti invece ce li metterà dentro - come è tradizione degli audiovisivi, anche quelli considerati più nobili, come il cinema. È l'Italia che cambia. Toccasse a noi di tenere un catalogo per date di questo mutamento antropologico nazionale, lo vedremmo contrassegnato in ogni sua virgola da programmi e momenti televisivi. Se il 1980 è l'anno della sfida e del quiz dei sogni, il 1981 per Canale 5 sarà l'anno di Dallas. La serie che ha per protagonista il perfido Gei Ar. La serie trasmessa in 57 paesi e seguita da alcune centinaia di milioni di spettatori (si parla di circa 300) venne proposta a Raiuno ma i dirigenti di allora la sottovalutarono, decidendo di mandare in onda solo la prima serie. “Ghe pensi mi”, avrà pensato il Cavaliere e via: Dallas sbarca su Canale 5 e ci resta parecchi anni. Arriviamo così al 1982, l'anno dei mondiali di Spagna che segnano una riscossa del sistema-paese e dell'orgoglio nazionale tanto che un intellettuale di destra come Giano Accame arriverà a scrivere un libro, Socialismo tricolore, dove mischierà il ritrovato sentimento nazionale con la figura di Bettino Craxi. E su Canale 5? Beh, su Canale 5 "the show must go on", con Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, che portano in scena un gioco tra la cucina e la musica. È la vita, in tutte le sue declinazioni, alte e (soprattutto) basse: mangiare, danzare, cucinare, che entra nella scatola magica e di lì a poco contagerà anche il linguaggio della carta stampata. Si mette in scena e via. Dentro il programma, tra l'altro, c'era spazio pure per la danza e si esibivano le Bluebelles del Lido di Parigi. Del resto la passione parissiene del Cavaliere è nota. La filosofia del palinsesto, poi, è semplice: si ingenerano attese per eventi e poi li si trasmettono. La magia è che, mentre per la Rai si paga il canone, la tv commerciale è gratis e copre con le inserzioni pubblicitarie i propri costi. Così se il 1981 ed il 1982 saranno gli anni di Dallas e del Mundialito, il 1983 sarà l'anno di Uccelli di Rovo e di Padre Ralph. Peccato e narrazione insieme: è la storia di un prete, Padre Ralph appunto, interpretato dall'attore Richard Chamberlain, e di una donna (nel ruolo l'attrice Rachel Ward), storia tratta dal romanzo della scrittrice Colleen McCullough. Immaginate la portata rivoluzionaria di una miniserie del genere, in un Paese dove le chiese le trovi dappertutto. Uccelli di Rovo farà 13 milioni di spettatori, un numero che per la tv generalista di oggi è difficilissimo da raggiungere. Già i numeri. Perché la fine del monopolio Rai e l'irruzione di Canale 5 e della altre tv commerciali si porta con sé un altro cambiamento epocale: l'audience e la nascita dell'Auditel. Quest'ultima è una società costituita nel 1984 proprio allo scopo di rilevare in maniera imparziale e obiettiva i dati relativi agli ascolti del pubblico televisivo in Italia. Auditel viene costituita da tre parti uguali: 33% per le tre componenti fondamentali, Rai, emittenza privata e aziende che investono in pubblicità mentre il restante 1% va alla Fieg, la Federazione italiana editori di giornali. Al di là degli assetti societari – però – la grande novità culturale dell'audience è l'irruzione del pubblico. Il popolo televisivo guardando i programmi ne determina il successo o l'insuccesso, la chiusura anticipata o il bis per l'anno successivo. È lì – in fondo – nell'Italia degli anni Ottanta, una democrazia parlamentare nella forma e nella sostanza – che compare per la prima volta il concetto e l'ossessione del maggioritario. Chi fa più ascolti vince la serata. Punto e arrivederci a domani. Non si può cogliere appieno il cambiamento italiano e la rivoluzione della tv commerciale se ci si ferma soltanto al costume ed ai programmi e si dimenticano gli spettatori e la misura del loro giudizio. Gli anni e i programmi passano, ma lo share resta. Ancora oggi. Dopo l'Auditel, per completare il puzzle di questa rivoluzione ontolgica, restano ancora alcuni programmi e il debutto dell'informazione, sotto forma di Telegiornale, sulle reti private. I programmi indimenticabili sono almeno due: il primo è La Corrida, condotta da Corrado, che da programma radiofonico sbarca in tv. Sono i dilettanti allo sbaraglio – siamo nel 1986 – e gli italiani, dopo 6 anni di Canale 5, non si accontentano più di guardare ma vogliono partecipare. Pensate che per la prima edizione le richieste di partecipazione alla trasmissione arrivate dalla gente comune furono oltre 50mila. L'altra tappa, controcanto all'informazione paludata, sarà Striscia la notizia, il tg satirico di Antonio Ricci che, dopo un esordio su Italia 1, passerà su Canale 5 di cui, ancora oggi nel XXI secolo, è un pezzo inamovibile del palinsesto. E poi - come dimenticarli! - i telegiornali che sulle reti private sono riconducibili a due nomi e due cognomi: Enrico Mentana ed Emilio Fede. Il secondo, il 15 gennaio del 1991, in tempi di Guerra del Golfo, la prima, s'inventa su Italia Uno Studio Aperto. Il giorno in cui scade l'ultimatum degli Usa all'Iraq per il ritiro delle truppe dal Kuwait, il Cavaliere non ci pensa nemmeno un attimo e comincia a trasmettere un tg in diretta. La guerra del Golfo finirà e l'utilizzo della diretta diventerà, per le reti private, Canale 5 compreso, una sorta di diritto ormai acquisito. Ma il debutto dell'informazione sull'ammiraglia dell'allora Fininvest (appunto Canale 5) porta il nome di Enrico Mentana: è il 13 gennaio del 1992. All'inizio il tg è composto di tre edizioni al giorno, 13, 20, 24 cui si aggiungerà quella delle 8. Il linguaggio è diverso rispetto a quello dell'informazione istituzionale del Tg Uno. Rapido, corsaro, con un ritmo veloce che fa guadagnare a Mentana, che lo conduce in prima serata, il soprannome di “mitraglia”. Già il primo anno di messo in onda è la radiografia di un successo: secondo tg nazionale per ascolti, il Tg5 viaggia su un 20% di share nell'edizione serale. Il primo sorpasso avverrà nel marzo del 1993. Da Uccelli di Rovo sono trascorsi 10 anni, da Dallas 12, da I sogni nel Cassetto oltre tredici. Ne mancano – è vero – ancora sette all'edizione del primo Grande Fratello (che andrà in onda su Canale 5, nel 2000) ma l'Italia è già cambiata profondamente, e senza i reality show. La Prima Repubblica scricchiola e di lì a poco il patron delle tv commerciali, Silvio Berlusconi, scenderà in campo, in politica, dove si trova ancora oggi, da presidente del Consiglio. Agli albori della tv commerciale, ai giornalisti incuriositi che gli chiedevano lumi sui palinsesti delle sue tv private, Berlusconi spiegava: “Perché tanti vecchi film in tv? Perché costano meno dei nuovi e poi anche perché agli occhi del pubblico gli anni Cinquanta e Sessanta sono già la belle époque, anche se allora nessuno se ne accorse. Adesso, però, ci si ritorna volentieri”. Non sappiamo se la tv commerciale – oggi – possa rappresentare la belle époque di qualcosa. Probabilmente no. Resta comunque la testimonianza di una modernizzazione italiana, di una società che prendeva velocità, frenetica e che preferiva le cosce delle donne e il depensamento alle opere di Giacomo Puccini. La terza rivoluzione, dopo le parole in libertà di Marinetti e il “credere, obbedire, combattere” di Mussolini: “Che se saprei che mio figlio mi diventerebbe ricchione, vivo glielo faccio mangiare il ritratto di Dorian Gray”, parola di Vito Catozzo (personaggio interpretato dall'attore Giorgio Faletti, programma Drive in). Anche se quella era Italia Uno, buon compleanno Canale 5. E viva la Revolución.

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