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di DINA D'ISA Ha 80 anni e - per dirla alla Sergio Leone - non perde un colpo.

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Nonmancano suspense ed effetti speciali, necessari per l'agghiacciante scena che rievoca la tragedia dello tsunami in Thailandia, nel 2004. La storia, che sta appassionando gli Usa e uscirà nelle sale italiane il 5 gennaio con la Warner, è quella di tre personaggi che s'intrecciano alla ricerca della stessa cosa: percepire il senso della vita oltre la morte. Marie Lelay (Cécile de France) è una giornalista francese sopravvissuta allo tsunami; Marcus (McLaren) è un ragazzino inglese che soffre per la mancanza del suo gemello, perso in un tragico destino e tenta in tutti i modi di mettersi in contatto con lui; George Lonegan (Matt Damon) è un operaio americano in grado di vedere al di là della vita. Deciso però a rifiutare quel dono in cambio di un'esistenza normale, George legge romanzi di Dickens e frequenta un corso di cucina italiana. Ma, suo malgrado, sarà proprio la «La piccola Dorrit» (uscita dalla penna dello scrittore britannico) a condurlo fino a Londra, dove incontrerà Marcus e Marie. Tutti i protagonisti si ritroveranno sospesi su una soglia metafisica, chi sperimentando la morte, chi scampandola, chi subendola, nel tentativo di carpire al meglio quel che resta da vivere nel mondo. L'ultimo Clint Eastwood dipinge l'ansia della vita confrontandola con la morte e sottolineando in «Hereafter» una verità che si dimentica troppo facilmente: l'esistenza è un'avventura a termine che si articola attraverso due prospettive, al di qua e al di là di quella sottile linea rossa che separa la presenza dall'assenza. È proprio questo confine il vero protagonista del film, attorno al quale ruotano le vicende di una donna, di un uomo e di un bambino, persi in un labirinto di spazi urbani che sembrano appesantire i loro microcosmi. Personaggi colpiti duramente da un destino feroce, che li fa però incontrare per un momento (forse per la vita), tra lo tsunami in Oriente, gli attacchi terroristici alle metropolitane londinesi e le tragiche fatalità degli incidenti stradali. Eastwood si triplica, tra infanzia, femminilità e virilità, mettendo al centro l'impalpabile, eppure conosciuta, dimensione dell'essere. E offrendo a Damon l'occasione di esprimere una delle sue migliori interpretazioni. Il regista californiano (che non si è mai sentito a suo agio nelle «religioni organizzate» e che fa film per «porre domande non risposte») osa l'esplorazione della morte con una sensibilità sorprendente, interrogandosi su questioni spirituali in contrasto con le scene di un presente incerto e violento. Con un epilogo (commovente) che non scade nel bieco sentimentalismo.

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