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Augusto, l'imperatore buono

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Dobbiamoconfessarlo: abbiamo aperto con una certa diffidenza la biografia di John E. Williams dedicata a Gaio Giulio Cesare Ottaviano Augusto ("Augustus. Il romanzo dell'imperatore", Castelvecchi, pp. 382). Ecco, era quella parola, "romanzo", che ci metteva in sospetto, considerando il gusto, tutto americano, degli "effetti speciali" e soprattutto la cattiva abitudine, o la malagrazia, con cui il passato viene travasato nel presente e del presente assume i caratteri, i comportamenti, il linguaggio, le emozioni, i "colori", come se, in fin dei conti, non ci fosse poi una gran distanza tra un coraggioso cow-boy impegnato nelle praterie e un altrettanto coraggioso gladiatore impegnato nell'arena. Beh, in teoria questo rischio non avrebbe dovuto esserci, considerando che con "Augustus" Williams aveva ottenuto il prestigioso National Book Award e tenendo conto delle critiche positive stilate da tutta la stampa anglosassone, dal "New York Times" al "New Yorker", dall'"Economist" al "Financial Times". Eppure, continuavamo ad essere ancorati al nostro, vogliamo chiamarlo così?, pregiudizio e a temere l'"americanata": sangue, sesso, tresche familiari, malaffare politico, ambizioni, tradimenti e crudeltà in ordine sparso, ancorché in ottima confezione e non "raccontati" alla maniera "trash" di un "Dynasty" o di un "Dallas" di duemila anni fa. Bene, il "romanzesco" c'è ma la mano di Williams è abile e riesce a disciplinarlo, armonizzandolo con una ricostruzione storica accurata. Non era facile, anche perché l'espediente letterario cui ricorre lo scrittore per disegnare un profilo "credibile" di Augusto, e cioè quello di far raccontare le sue gesta dalla voce degli uomini e delle donne che gli furono più vicini; l'espediente, dicevamo, di render viva e dunque "vivacizzare" una figura complessa e carismatica, facendo "parlare" amici e nemici, può innescare un meccanismo farraginoso che finisce con l'appesantire la scrittura ed annoiare il lettore. Ma Williams riesce a dare credibilità alle testimonianze apocrife opportunamente saldandole col materiale storico. E il ritratto dell'Imperatore viene fuori. Non sarà il "Claudio" di Graves e men che meno l'"Adriano" della Yourcenar, con cui, un po' troppo entusiasticamente, è stato paragonato, ma siamo comunque a notevoli livelli. Ma chi è, com'è questo Augusto? Chi è questo ragazzo, dall'aria fragile e un po' malaticcia - ma lo sguardo, che pure è dolcissimo, già svela volontà e determinazione - che, appena ventenne, deve fare i conti con gli assassini di Giulio Cesare, sottraendosi a minacce, lusinghe e trappole, evitando lo scontro con il Senato e cercando una difficile mediazione con quel Marco Antonio che lo tratta con arroganza e lo considera un "piccolo bastardo"? Chi è, che cosa vuole, quali progetti nutre il giovane uomo che il conservatore e repubblicano Marco Tullio Cicerone, "complice" dei casaricidi, definisce una "nullità" pensando di poterlo manovrare a proprio piacimento? Ecco, è proprio quello che gli altri non sanno, non credono, non sospettano che sia: un uomo di Stato. Un giovane uomo che crede nello Stato. E che è destinato a diventare il "princeps" che restaurerà Roma - la città lacerata dalle guerre civili e nella quale "l'immoralità è più ammirata della virtù" e i "princìpi sono stati asserviti agli egoismi" - riportandovi l'ordine e la legge, la giustizia e i valori tradizionali, ma dandole anche lo slancio propulsivo che ne farà la capitale del mondo, in un disegno egemonico che avrà dalla sua il diritto e le armi. Ma non si pensi che quella di Williams sia una celebrazione o addirittura una santificazione di Augusto. Diciamo che si tratta, piuttosto, di un "riconoscimento": il giovane Ottaviano prende su di sé, e lo fa immediatamente, pur dovendosi muovere con tutte le cautele del caso, il "carico" della propria condizione e del proprio tempo. Gli altri lo credono fragile e manovrabile, e lui per certi versi lo è, e pare mostrarsi accondiscendente, e magari far buon viso a cattivo gioco, perché molti sono i nemici e altrettanti i falsi amici: ma, sia pure tra ambiguità e contraddizioni di cui lui stesso è consapevole, un intento sicuro ce l'ha: esser fedele alla memoria di Cesare. Nella logica della condivisione, però, non del conflitto. Astutamente, Ottaviano, si sforza di "armonizzare": la sua è una rivoluzione, ma la parola significa anche ritorno al punto di partenza, dunque alle origini. E lui vuole essere l'uomo dei "fondamenti" e delle "tradizioni": l'"Eneide" dell'amico Virgilio, il "Carmen saeculare" dell'amico Orazio sono il contrassegno nobiliare di una mitica Roma "ritrovata". È chiaro che, come viene fuori da tante "testimonianze" - ad esempio dalle "Lettere" che un altro caro amico di Augusto, l'intellettuale di origine etrusca Mecenate, invia a corrispondenti illustri (come Livio), oppure dal "Diario" di Giulia, l'amatissima figlia di Augusto - l'Imperatore dovrà in più occasioni sacrificare alle "ragioni" della politica la vita privata e gli affetti. Compresi quelli più cari: ed è proprio il caso di Giulia, esiliata per ragioni di Stato a causa di comportamenti "scandalosi", veri o presunti che fossero, ma, in ogni caso, confliggenti con quella restaurazione dei costumi morali di cui Augusto si fatto deciso promotore. Dunque, aveva l'obbligo di "decidere" in nome di Roma e al di là degli affetti. Ma nel destino di un imperatore può esserci scritto anche questo: e lui lo sapeva.

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